LeTTEr TO a MAn

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“Mi hanno detto che sono pazzo. Io pensavo di essere vivo.”

Quando parlo di cose che amo, che mi hanno colpito, affascinato e immerso in altri mondi,  è sempre difficile poi raccontarle ai posteri con distacco e obiettività. Cosi mi è successo per lo spettacolo di Robert Wilson e Mikhail Baryshnikov Letter to a man.
L’emozione di vedere per la prima volta il lavoro del regista americano dopo averlo incrociato per anni solo nei libri che ho studiato è stato indescrivibile. Ho sempre provato grande ammirazione e curiosità verso il suo operato.
Definito come “una pietra miliare” del teatro sperimentale mondiale e un innovatore dell’uso del tempo e dello spazio in palcoscenico, Robert Wilson ha dato vita a un nuovo modo di realizzare e vivere la scena attraverso l’impiego di diverse tecniche artistiche che interagiscono tra di loro (danza, movimento, pittura, luce, desing, scultura, musica e drammaturgia) donando allo spettatore lavori di altissimo livello estetico e di potenza emotiva.

Alla sua regia si aggiunge la presenza unica di Mikhail Baryshnikov danzatore di fama mondiale - uno dei più grandi dei nostri tempi – che si mette a completa disposizione del regista e della storia. Chi meglio di lui, infatti, poteva interpretare i pensieri “deliranti” di Vaslav Nijinsky – danzatore russo, promessa indiscussa della scuola pietroburghese, una stella tramontata troppo presto tra le mura del manicomio, e di cui ci resta un diario scritto nel 1919 e pubblicato in Italia da Adelphi - vissuto nei primi del 900?
Sembra un controsenso ma nessuna piroetta né coreografie sfavillanti invadono il palco per raccontare la vita di Nijinsky. Anzi, Baryshnikov non danza praticamente mai, è presente in scena con una eleganza disarmante, guanti  (vestito di tutto punto da Giorgio Armani) e il cerone bianco che gli copre il volto, la sua voce registrata viaggia su binari paralleli a quella di Wilson in inglese creando una sorta di partitura che ne scandisce i movimenti e le espressioni.

Una sorta di cinema “muto” prende vita sul palco, le scene (moltissime) si susseguono con colori e tagli netti, immagini evocative e l’intrusione ad ogni cambio scena degli attrezzisti sembra quasi ricordarci che è tutta una illusione, una dolce e feroce, quanto lucida pazzia quella su cui viaggia Baryshnikov/Nijinsky.
C’è una non narrazione chiara e disarmante, che lascia il posto alle frasi di Nijinsky, brevi racconti, stralci della sua vita, tutti scritti nei suoi diari folli. Ci si immedesima psicologicamente nei testi lasciati da Nijinsky, le sue frasi a volte crude e forti, altre volti sensibili e piene di vita, un binomio che si avverte per tutta la durata dello spettacolo, una voglia intensa di vivere, quasi di aggredire la vita e allo stesso tempo la paura di non farcela, il senso di perdita e smarrimento.

“Sono felice perché sono amore. Amo Dio e perciò sorrido a me stesso - scriveva Nijinsky dei suoi diari - La gente pensa che impazzirò, pensa che perderò la testa. La testa l’ha persa Nietzsche perché pensava. Io non penso, quindi non perderò la testa”.

Per tutto questo Letter to a man , per me, è stato magico:
la scena quasi bidimensionale che richiama la bellezza dei quadri (un po’ pop);
l'incanto dall’eleganza e dai movimenti delicati e sicuri di Mikhail Baryshnikov;
il lasciarsi trasportare dalla follia di Vaslav Nijnsky;
il farsi cullare dalla lingua russa che crea partiture speciali per i gesti coreografati di Baryshnikov;
il commuoversi - frastornati e a tratti inconsapevoli - davanti a quello che si sta osservando, perché è uno dei lavori più particolari e unici mai visti nell'ultimo periodo e passerà sicuramente alla storia.

"Io non sono Cristo. Io sono Nijinsky"


viSto il 20 SeTTembre ore 16 al CRT-TrieNNale di MilAno

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