Un viaggio lungo uno spettacolo - Conversazione con Ricci Forte
Incontro Stefano e
Gianni poche ore prima dell’ultima replica al Piccolo Teatro Studio di Milano,
ci diamo appuntamento davanti al teatro.
Milano sorride, c’è il sole e la
temperatura è piuttosto piacevole nonostante sia il 18 novembre.
Arrivano puntuali ma
l’incontro lo faccio solo con Stefano. Entriamo in teatro, saliamo fino alla
penultima galleria, e mentre il gruppo sta facendo training sotto di noi, io
inizio l’intervista a una parte del duo Ricci/Forte che in questo periodo, più
che in altri, stanno facendo parlare di loro, nel bene e nel male, con l’ultimo
lavoro IMITATIONOFDEATH
Bilancio di questa
settimana al Piccolo Studio di Milano? Com’è andata? Che pubblico avete trovato?
Guarda è andata molto bene, anche nella misura in cui lo
spettacolo è appena nato, due settimane fa solamente ha debuttato a livello
internazionale al Roma Europa Festival. Questo spettacolo, come poi tutti i
nostri lavori, ha bisogno di tempo per settarsi, per trasformarsi, e ogni
giorno per noi è una esperienza differente, nuova. Abbiamo trovato un teatro sempre colmo e il pubblico del
Piccolo ha saputo ascoltare e ci ha dimostrato stima e affetto, in un teatro
sempre pieno, con persone sempre attente e consapevoli, comprendendo che si
stava parlando anche con un codice differente.I ragazzi sono stati ripagati
delle loro fatiche, del loro impegno.
C’è stato un grande entusiasmo finale.
Il bilancio è ottimo.
Quanto è diverso
Imitationofdeath di oggi rispetto al primo studio di Dro, portato in scena alla
Centrale di Fies?
Lo abbiamo presentato l’anno scorso a Dro proprio per
verificare, testare, la possibilità di questo nuovo linguaggio, per cercare di
capire la fattibilità di far parlare un corpo, con una ricerca predominante
dell’esposizione fisica. C’è molto del primo studio di Dro, ma c’è anche altro.
Lo spettacolo è cresciuto - dura un’ora e un quarto rispetto ai trenta minuti
scarsi dello studio - è cambiato e cambia sempre. Il cambiamento, ecco, questa
è la clausola che abbiamo inserito per far evitare ai ragazzi di
cristallizzarsi, di fissarsi sempre sui soliti schemi; cambiamo sempre la
formazione, pochi minuti prima di entrare in scena. Ogni volta c’è un registro nuovo, il lavoro si ricompatta in
un nuovo affresco, dove ognuno di loro fa un nuovo viaggio in uno stesso cocktail
di storie individuali, di portata emotiva personale, tutto si trasforma,
diventando sempre ALTRO ogni giorno.
Nelle ultime
settimane hanno scritto in molti su di voi e su questo lavoro, tanti sono i
titoli che saltano agli occhi come “la banda dei corpi”, “corpi orrendi”,
“provocazioni pop”, ecc. Vi ritrovate in queste diciture? Ritrovate
Imitationofdeath?
Io credo che i titoli, gli aggettivi che accompagnano il
lavoro del gruppo si raccontino un po’ da soli. Raccontano la volontà
necessaria di etichettare, porre in un cassetto preciso, un lavoro che ha poco
a che fare con l’archiviazione, perché si sta parlando di espressione
artistica. Capisco che ci sia una volontà precisa di far capire, a chi non conosce
il lavoro del gruppo, di cosa si sta parlando, però parlare di “corpi orrendi”o
“la banda dei corpi” mi fa un po’ sorridere. E’ vero che è il corpo il
protagonista di questo lavoro, ma è anche vero che nel nostro paese c’è una
disabitudine a vedere un corpo che può parlare. E un corpo che parla non vincolato
dalla drammaturgia verbale è sempre classificato come un lavoro di danza e
questo un po’ racconta la nostra arretratezza culturale.
Uscendo dai confini nessuno di questi aggettivi o parole
come “trasgressione” o “provocazione” ci sono stati attribuiti. Mettere
l’accento sul corpo o sullo scandalo legato all’uso dell’epidermide è qualcosa
che racconta, invece, forse un bigottismo culturale, un timore di potersi
emancipare dalla drammaturgia verbale, emancipati dalla storia, dal regime
totalitarista della parola e della storia che anche a teatro, come in altri
media, hanno costretto a seguire come se non ci fosse altra comunicazione
possibile. Qui proviamo a fare un
percorso differente, che segua un’ispirazione sensoriale, anche nei confronti
del pubblico, per stimolarlo, per fargli guardare le cose in modo diverso, per
rimettere in circolo una possibilità, per poter fruire un’esperienza
artistica/culturale in un altro modo. Vogliamo lasciare al pubblico la
possibilità di ricostruire un’esperienza visionaria, com’è uno spettacolo
teatrale, gonfiandolo del proprio significato, del proprio vissuto, diventando
ognuno regista di ciò che sta vedendo.
Se dovessi descrivere
lo spettacolo ad una persona che non vi conosce e non ha mai visto niente di
vostro, che immagine useresti?
E’ difficile, perché ogni passaggio, ogni prodotto, ogni
creazione che noi presentiamo è in qualche modo una nostra fotografia di una
esperienza che prima è nostra, mia e di Gianni, e poi diventa di viaggio
insieme al gruppo. Quindi è talmente intimo, personale, che è difficile
descriverlo, è come trovarsi a descrivere agli altri com’è il proprio figlio.
Forse potrei fotografare l’immagine di come ci si può
accostare a un prodotto del genere, con una curiosità che è simile a qualcuno
che si siede sul vagone di un ottovolante
e decide di affrontare un viaggio, sapendo che ci saranno dei momenti in
cui verrà messo a dura prova anche il suo senso dello stupore e dei sui limiti
rispetto alla paura e alla crescita dell’ansia nei confronti di qualcosa che
precipiterà.
Il “viaggiatore” salirà su quel vagone anche con la
sicurezza di sapere che si arriverà alla fine del viaggio e che una volta scesi
dal vagone userà come meglio riterrà opportuno tutto quello che ha vissuto nei
confronti di quello che lo aspetta fuori.
Ecco, credo sia proprio un viaggio, lasciarsi abbracciare.
Come mai avete scelto
di indagare una tematica come quella della morte e la sua
imitazione?
In realtà è una celebrazione della vita - che è una cosa che
poi trasversalmente accompagna tutto il nostro percorso – è una volontà di
comprendere effettivamente quanto siamo vicini al regno dei vivi oppure quanto
non lo siamo pur ritenendoci in vita. Come in una notte di Halloween morti e
vivi si confondono ed è un po’ quello che ci capita tutti i giorni con la persona
seduta vicino a noi in metro, oppure anche qui in teatro, non necessariamente
si vive solo perché si sta respirando.
Quindi abbiamo recuperato, facendo un percorso a ritroso, un
discorso dalla nascita, dai primi giorni di vita, dai primi passi, dai primi
quesiti che un bambino compie nei confronti del mondo. Vengono rappresentati
tutti i passaggi dell’età dell’uomo. E ci si pone una domanda fondamentale,
cosa ci differenzia dalla terra, dagli oggetti inanimati, dove recuperiamo
l’energia per stare in piedi? Ci sembra scontato ma lo stare in piedi, avere la
posizione eretta, camminare, è un dono prezioso. Ci si avvicina un po’ ad una
dimensione, se vogliamo, cristologica, scoprire dove si annida il divino
attraverso la morte. Perché poi Gesù Cristo è la rock star più affermata nella
storia del mondo proprio perché attraverso la morte ha celebrato la sua
esistenza.
Abbiamo quindi indagato sul continuo confronto con gli
oggetti, che parlano di noi, che sopravvivono a noi e che restano come un
ologramma. Tutto quello che compriamo, che usiamo, che scegliamo è un diario,
racconta di noi, queste cose ci raccontano e raccontano la nostra storia.
C’è un momento d’improvvisazione al centro dello spettacolo che
indaga i perché, che diventano i nostri perché, rispetto a cose che non
riusciamo a comprendere, i perché che diventano i perché di tutti. Ecco questo
è uno dei punti cardine di tutto il nostro lavoro, ritrovare un senso di
comunicazione tra chi è in scena col pubblico e cercare di ritrovare nel teatro un luogo di agorà, di
conversazione e di comunicazione.
Com’è il lavoro con
gli attori? Come vengono scelti? E quanto di biografico c’è all’interno dello
spettacolo?
Noi lavoriamo molto sul loro patrimonio, i ragazzi vengono
selezionati anche in base a questo e alla generosità con cui si vogliono
affidare al viaggio, e rispetto a quanto mettono in gioco della loro storia
individuale. Tutto viene sempre “impastato con le loro viscere, con il loro
sangue”, per creare un'architettura di parole che magari è lontana da quello
che sono esattamente ma è impastata con parti di essi dove si riconoscono. E
nel momento in cui vanno a percorrere quel passaggio sanno che è qualcosa che
fa parte del loro essere e affrontano il lavoro anche un con una responsabilità
morale differente.
In questo caso, più che in altri, lo spettacolo è affidato
proprio alla loro esperienza, dove c’è improvvisazione assoluta. E questo è
determinante, inserito in struttura di questo tipo, dove c’è testo scritto,
improvvisazione e apparente psicodramma perché parte delle loro viscere, ma
allo stesso tempo diventa come una grande sinfonia dove la parte emotiva
individuale, la parte costruita e il corpo che parla, tutti diventano elementi
di questa babele che serve per gettare un ponte di comunicazione col pubblico.
E la bravura degli attori è proprio in questo, riuscire a
controllare, a governare, ogni emozione anche quando sono profondamente
connessi con la loro parte più profonda. Sono loro che generano e modificano la
traiettoria dello spettacolo e per fare questo ci vuole molta tecnica e molta
consapevolezza, per riuscire a governare un’ora e un quarto in cui stanno
facendo un viaggio personale ma allo stesso tempo lo stanno facendo per qualcun'altro.
Sembra che vogliate
lasciarli nudi, non solo fisicamente ma soprattutto emotivamente…
Si è vero, sono completamente nudi ma si affidano totalmente
perché sanno che c’è una struttura rigorosa che mai si compiace della loro
nudità fisica ed emotiva, non è strumentalizzata. Soprattutto perché sanno che all’interno
di un progetto come questo, la “nudità” richiesta può diventare un vocabolo per
qualcuno, perché quando si entra in condivisione con una persona che fa propria
quella esperienza allora lì s’individua il senso del lavoro.
Tutto diventa un viaggio da compiere esclusivamente qui
anche perché è difficile darsi in questo modo, così totale, fuori da un
contesto come questo, a degli estranei.
I performer sanno di essere se stessi fino in fondo, di
potersi dare totalmente e che tutto quello che danno verrà ben custodito e non
verranno traditi.
Mi spieghi la
simbologia che nasconde l’uso del tacco alto? E’ un elemento ricorrente nei
vostri lavori ma qui, più che in altri, sembra voler manifestare la difficoltà di
rimanere in piedi, in equilibrio, nella vita di tutti i giorni…
Si, è anche questo. Il tacco, la scarpa, diventa alcune volte
un modo per rimanere distanti dalla terra, altre volte racconta la difficoltà
di rimanere con la schiena dritta in mezzo alle difficoltà.
Non è mai, come purtroppo è stato letto, un semplice oggetto
estetico. In questo caso la scarpa è completamente fasciata, volevamo raccontare
più uno zoccolo, uno zoccolo caprino, come se fosse una protesi che per noi
rappresenta il dono che ognuno ha sin dalla nascita, la fantasia, quel valore
che ci permette di pensare, sin da piccoli, che tutto è possibile.
Ad un certo punto dello spettacolo si tolgono questi
zoccoli, questo apparato fantastico, questa nostra natura dionisiaca, la
possibilità di sentire la natura in maniera differente, per crescere, diventare
adulti. Allora cerchiamo di capire, di interrogarci, se il gioco vale la
candela, se crescere, diventare adulti e quindi privarsi di quell’apparato fantastico
può essere giusto perché si acquisisce un valore nella crescita o se diventa
solo una privazione.
In questo spettacolo l’aspetto dell’identità è messo da
parte per un discorso corale, dove non c’è distinzione tra uomo o donna, ma ci
sono solo anime settate nello stesso battito, nello stesso dolore e negli
stessi quesiti nostri, del gruppo, e del pubblico.
Avete indagato anche attraverso gli oggetti sulle
ossessioni dei vostri attori, su ciò che collezionano. Se dovessimo
ribaltare la domanda, tu che cosa collezioni? Cosa ti ossessiona?
Non credo che riuscirei a collezionare qualcosa, perché il
collezionare significherebbe concentrarmi su una cosa precisa lasciando
perdere altro. Invece questa curiosità che mi accompagna, che mi fa sorridere,
che mi fa stare bene anche dopo che il viaggio è compiuto, mi fa sempre pensare
a quello che succederà dopo.
L’idea di soffermarmi su qualcosa mi fa sentire ancora di
più il senso della morte. Non voglio trattenere nulla, credo sia giusto
lasciare andare le cose, le persone, sono esperienze...
Ecco, colleziono incontri, avventure con loro, col gruppo…forse
è questa la mia ossessione.
C’è uno spettacolo, fatto o visto,
che ti ha cambiato la vita?
No, su questo
sono sicuro che non ci sono spettacoli.
Le cose che mi hanno cambiato la vita sono state le
esperienze di vita, gli incontri, le perdite, le trasformazioni, i rapporti,
gli accadimenti definitivi nella vita di tutti i giorni che hanno fatto si che poi
la rotta si trasformasse.
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