Le sottili relazioni tra lo yoga e il teatro| Incontro con Anastasia Mostacci


Oggi il nostro ottavo incontro sulle relazioni tra lo yoga e il teatro ci porta ad incontrare Anastasia Mostacci. 
Laureata in filosofia del linguaggio con un Master in linguaggi non verbali e performance, ho lavorato nel teatro di ricerca e nel teatro ragazzi e ha gestito una galleria d’arte-spazio culturale organizzando esposizioni, performance e rassegne di musica sperimentale. È insegnante di hatha yoga, yoga terapia per le donne e yoga Nidra. Si è formata in Terapia Menstrual Madretierra e Ciclicità Integrale, e guida gruppi verso un ripensamento collettivo che porti a superare la cultura patriarcale.

Autrice, con Francesca Proia e Adele Cacciagrano, di “La strada collettiva”, opera nata da una esperienza di comunità del sogno lucido, un libro poetico e pratico insieme. Nel 2015 ha creato GROW A LOTUS, un progetto che vuole coltivare i legami tra umani e piante, un tentativo di restituzione  verso le nostre antenate verdi.


Ciao Anastasia, grazie per dedicarmi del tempo,

ti ricordi come è avvenuto il primo approccio con la pratica? 

Il primo approccio con la pratica è avvenuto durante l’infanzia nel giardino della casa al lago dei miei nonni, dove vedevo mia zia praticare alcune posizioni e in particolare ero attratta dalla pratica di uddjana bandha e di nauli. Da allora ho iniziato a praticare con lei d’estate, chiedendole di insegnarmi qualcosa, e poi successivamente durante gli anni del liceo e i primi dell’università sono stata con lei a lezione dalla sua insegnante, trascinando anche tutta la mia classe durante le ore di educazione fisica dell’ultimo anno di scuola superiore. 

 

Che cosa ha completato la pratica dello yoga (se lo ha fatto) nella tua ricerca teatrale e corporea?

Quando ho iniziato la pratica teatrale e corporea avevo praticato poco yoga e in maniera discontinua. In quegli anni direi di aver abbandonato la pratica dello yoga e di essermi immersa completamente in quella teatrale, ma c’era una dimensione del corpo che era sempre sfuggente, come se non fosse mio, come se non lo conoscessi mai abbastanza, come se fosse altro da me. La mia consapevolezza corporea, il mio sentire il corpo, è sempre stata molto scarsa. Mi reputo un essere molto più facile all’aspetto mentale, il corpo è sempre stato per me un mistero, e come tale mi ha sempre affascinata. La mia ricerca teatrale, che poi è diventata argomento di studio, ha sempre coinvolto la relazione tra partitura e improvvisazione, tra forma e ciò che le sfugge, e come la forma può essere abitata, respirata, resa viva. 

Che è la relazione di Shiva e Shakti, della loro danza che permea tutto ciò che è vivo.

allora ciò che lo yoga ha completato è stato proprio portarmi a sentire il corpo, portarmi dentro al mistero, dentro al respiro, dentro alla meccanica, dentro al sacro, dentro al corpo come pezzo di pianeta, come respiro della Vita, come paesaggio, come microcosmo. Ciò che lo yoga ha fatto è stato rivelarmi poco a poco quella parte di me davanti a cui ero cieca e sorda, è stato un punto di accesso, e ancora lo è. Ha trasformato il mio corpo rendendolo non più estraneo, sfuggente, mi ha dato accesso al suo divenire senza mai renderlo del tutto mio o del tutto conosciuto.

 

Usi il metodo abbinato al training teatrale o preferisci scindere le due cose? O l’una influenza l’altra in modalità continuativa? 

Al momento sono dedicata principalmente allo yoga e al suo insegnamento. Nella mia pratica personale entra sempre il training teatrale, in un modo o nell’altro. A volte recupero pratiche dimenticate da anni, e le ritrovo proprio a partire da un asana. A volte un asana diventa uno starting point per la liberazione di un’energia che era in essa condensata, come una parola diventa punto di accesso per un discorso poetico.

 

Ti è mai capitato di portare in scena “lo yoga”? Vuoi una forma, un’intenzione, un mito?

No, ma da molto tempo non vado in scena. La presenza stessa ha sempre per me un richiamo fortissimo con lo yoga.

 

Quanto è importante l’uso e la consapevolezza del respiro? Lo yoga ti ha permesso di scendere un po’ di più nei meandri di questo atto involontario che con la pratica può invece diventare volontario e controllato? Quanto poi, questo controllo, ti aiuta ad affrontare la scena?

Il respiro è un mondo da coltivare, che sfugge sempre in qualche modo, come un animale che non si fa addomesticare ma con cui possiamo provare ad avere una relazione. Come immediato accesso all’adesso sempre ci chiama e spesso ci sfugge. Stare nel respiro è sempre una conquista, stare nell’unica consapevolezza del respiro è stare nella vita nuda e contemporaneamente poterla coltivare, toglierla dall’immediatezza pur preservandone questa qualità. È una dimensione che esploro molto, specialmente legata al canto e al suono, alla liberazione della voce. Posso dire che mi abbia aiutato moltissimo nell’affrontare la vita come scena, e nel fluire tra i vari registri e ruoli a cui siamo chiamati.

 

Come è cambiata la dimensione scenica e corporea dopo aver incontrato lo yoga?

Completamente. Perché è proprio cambiato il corpo e la percezione del corpo. 

È passato da essere strumento ad essere paesaggio, autorità, spazio cosciente. 

È passato da non essere mai come volevo, mai abbastanza, ad essere unico, irripetibile. Da dover mostrare, esprimere, evocare e restituire a, semplicemente, farsi attraversare, incarnare.

Il lavoro sul sottile ha completamente cambiato la mia percezione e la mia visione del corpo e quindi anche del corpo scenico.

 

Cos’è per te il tempo? E come lo ha ridefinito (se lo ha fatto) la pratica dello yoga e come l’hai poi applicato alla creazione artistica?

Il tempo è ritmo, spanda, espansione e contrazione, inspiro ed espiro. È la danza di Shiva e Shakti, la creazione continua e sempre presente che noi percepiamo come dispiegata nel tempo.

Il tempo è narrazione. Il teatro nella sua essenza sta in questa tensione tra l’essere narrazione e l’essere ritmo, tra il dispiegarsi nel tempo e l’essere sempre vita nel suo farsi, presenza.

 

Ho visto che sul sito soundcloud carichi delle tracce vocali che guidano principalmente nelle pratiche di yoga nidra. Che valore aggiunto ha secondo te questa pratica, anche per chi frequenta lo spazio scenico?

La pratica di yoga nidra ha il potenziale per liberarci dai limiti della mente razionale, è un mezzo per accedere alla guida intuitiva o alla fonte creativa. Questo avviene soprattutto attraverso la pratica degli opposti: ci viene chiesto di muoverci con la consapevolezza tra due opposti (sensazioni fisiche, percezioni, concetti) e poi di sforzarci di tenerli insieme. Questo è un modo efficace per trascendere la mente logica e razionale: manas (la capacità che abbiamo di sperimentare il pensiero e l'emozione) semplicemente implode, non può tenere insieme due idee opposte contemporaneamente. Questo bypass forzato della mente razionale consente al subconscio di diventare più attivo, aprendo un nuovo spazio per il fiorire dell'intuizione e della creatività. 

"Se tieni insieme gli opposti nella tua mente, sospenderai il tuo normale processo di pensiero e consentirai all'intelligenza al di là del pensiero razionale di creare una nuova forma."
(Niels Bohr)

Quando Niels Bohr descrive la sospensione del pensiero razionale come un luogo in cui è possibile creare una nuova forma, descrive lo spazio in cui abbandoniamo la certezza della logica e ci spostiamo in un luogo che non è né certo né razionale. Un luogo del genere è spesso uno spazio molto creativo perché è uno spazio liminale - un posto tra una cosa e l'altra, dove non c'è certezza e quindi nessuna limitazione. 

Io credo che proprio in quanto spazio liminale lo yoga nidra possa essere un luogo fertile per chi frequenta lo spazio scenico.

 

E, in particolare, che rapporto hai con l’uso delle parole? Ossia, quanto le parole, secondo te, possono indurre una sensazione, un modo di percepirsi, di sentirsi, quanto secondo te possono “ïnquinare”  o plasmare la pura esperienza della persona che sta attingendo alla pratica?

Le parole mi hanno sempre affascinata e catturata. Le parole sono per me una fonte sorgiva a cui abbeverarmi. La parola è azione poetica, crea relazione, crea immaginazione, crea realtà. La parola ha una grande potenza, e un grande potere. La parola che cerco è parola incarnata, che sorge dal corpo come suo prodotto, come suo frutto.

La parola che misura, disciplina, addomestica, la parola logocentrica è qualcosa in cui sono caduta più colte nella mia ricerca di Verità, e vedo sì come elemento inquinante dell’esperienza, come tossina.

La parola autentica, la parola di verità, è per me sempre e prima di tutto suono, che sorge dal corpo e lo libera.

 

Quali autori, libri, ti hanno influenzato in questo percorso?

Francesca Proia, Luce Irigaray, Cristina Castrillo, Eugenio Barba, Grotowski, Artaud, Deleuze, Merleau-ponty, Andrè Van Lysebeth, Uma Dinsmore-tuli, Carla Lonzi, Selene Calloni Williams.

 

Ultima domanda: Cos’è per te lo yoga?

Per me è una strada che va verso l’interno e verso l’infinito.

Commenti

Post più popolari