Immersi nella danza contemporanea - parte II - Quattro chiacchiere con Giorgia Nardin
Dopo aver dato "il meglio di me" durante il laboratorio Shatush, condotto da Giorgia Nardin, Marco d'Agostin ed Amy Bell, sono pronta ad incontrare Giorgia per chiederle un po' del suo percorso artistico, del suo prossimo lavoro ed altre curiosità. Ci accomodiamo nei camerini del Teatro Villa dei Leoni e iniziamo la nostra chiacchierata.
Come nasce un lavoro coreografico? Da un immaginario? Da un'emozione? Da temi
particolari?
Beh, diciamo che va tutto un po’ di pari passo. Per lo
studio che andrà in scena domani sera All dressed up whit nowhere to go, tutto è nato questa estate quando ho visto i
quadri di Hieronymus Bosch a Palazzo Grimani, a Venezia. Da li la scelta di
partire da un concetto distante dalla contemporaneità, proprio perché l’artista
utilizza un immaginario fantastico, grottesco, animalesco, se vogliamo qualcosa
di completamente opposto alla quotidianità, ed è da questo punto che volevamo
cominciare lo studio, da un vocabolario di immagini iniziale suggerite da
questi dipinti. Poi a poco a poco, lavorando anche con Marco D’Agostin e Amy
Bell, è arrivata sempre più forte l’esigenza di sviluppare la tematica delle
transizioni, dei percorsi, da un momento iniziale a uno finale molto diverso,
quindi a delle vere e proprie trasformazioni. E’ proprio in questo senso che lo
ricollego al mondo di Bosch. Quando parlo di transizioni mi riferisco
principalmente a delle trasformazioni personali, più interne, emotive, non
semplicemente fisiche. La mia esigenza era di parlare di questo e Bosch mi ha dato
un veicolo di immagini che mi ha aiutato a ricollegarlo a qualcosa di visivo.
C’è un quadro in
particolare che ti ha ispirato più di un altro per questo lavoro?
No, non c’è n’è uno nello specifico, il primo che ho visto è
stato “Visioni dell’aldilà”, poi “Il trittico delle delizie”
ed altri, ma uno in particolare non c’è. Non mi interessa fare un lavoro predominate su Bosch, non è quello che voglio raccontare, anche
perché durante la ricerca - il percorso creativo - il lavoro ha preso una piega
molto diversa, molto distante da quella iniziale rispetto all’immaginario del
pittore, ciò mi ha permesso di esplorare la tematica da un'altra angolazione,
un altro punto di vista.
Quando inizi a
lavorare su un progetto quanto cambia, durante l’elaborazione, l’idea originale?
Rimangono dei punti fissi o è tutto in trasformazione?
Questa è un punto su cui ancora mi interrogo molto, anche
con Marco ed Amy, soprattutto in questa residenza in particolare perché è
cambiato tutto moltissime volte. Avevamo già dei quadri (per quadri s’intendono
scene – atti) da cui partire che sono stati totalmente stravolti in questa
residenza, per poi ritornare e per poi essere distorti ancora una volta. Tutto
dipende spesso da che canale di accesso scegli per lavorare (vuoi uno stato
d’animo, piuttosto che un sentimento, un emozione ecc.). E proprio in questi
giorni ci stiamo domando se è possibile ricreare quegli stadi, quegli stati
d’animo, che ci hanno permesso di arrivare al quel particolare gesto o
movimento all’interno di un disegno coreografico più formale o è necessario che
il disegno cambi ogni volta oppure devo trovare dei modi per ricreare lo stesso
stato d’animo. È una questione molto aperta per me, per noi, in questo
particolare momento.
Infatti, quello che ho scelto di mostrare domani non è una
sequenza compiuta, ma sono tanti frammenti tra i quali spiegherò a voce quali
sono i passaggi, il percorso, che abbiamo scelto di affrontare. Credo che in
questo momento sia la soluzione più onesta e l’unica possibile, non me la sento
di fare diversamente. In primo luogo perché non trovo interessante riuscire ad
incanalare in una successione logica questa tematica delle transizioni, mi
sembra una forzatura rispetto a quello che vogliamo presentare. In secondo
luogo mi sembra più utile aprire il processo creativo al pubblico, cercando un
confronto con lo spettatore che in questa fase del lavoro è fondamentale.
Ti pongo la stessa
domanda che ho visto citata sia nella presentazione di questo primo studio sia
del laboratorio Shatush: la ricerca della bellezza è un atto violento?
E’ una domanda da cui siamo partiti nella prima residenza
che abbiamo fatto a Bassano verso gennaio, alla quale non potremo mai dare
risposta, ma è rimasta come sul fondo di ciò che stiamo facendo. Più che la
bellezza credo si possa parlare di trasformazione, di apertura del performer
durante la performance, quindi indaghiamo su che cosa voglia dire togliersi
tutti gli strati che abbiamo, che ci proteggono, per lasciare andare tutto e
rimanere con ciò che c’è effettivamente. In questo senso, secondo me, è l’azione
più generosa ma anche più violenta che un performer può fare, spogliarsi di
tante cose rimanendo “nudo” emotivamente, con una essenza molto intima. Lo
trovo un atto bellissimo e violento in egual misura e riuscire a rimare, a
stare in quel momento li, per me è importante, anche perché non è facile e non
succede sempre, ma il mio interesse sta proprio in questa ricerca.
Ti capita mai che la
gente dopo aver visto un tuo lavoro non capisca quello che ha visto? Che se
vogliamo è un po’ il “problema” ma anche la fortuna del teatro e la danza
contemporanea…
Si succede. Però io credo di non avere un messaggio da dare,
per me è importante che, chi viene
a vedermi vada a casa con qualcosa di suo e non con quello che io
necessariamente volevo comunicare. Credo, comunque, che lo formato dello
sharing (presentazione del lavoro non ancora finito), come quello di domani
sera, sia un momento molto importante non solo per l’artista ma anche per lo
spettatore, perché c’è la possibilità di parlare, di porre delle domande
direttamente a chi crea ed è una cosa molto bella e molto rara, e confido molto
in questi momenti per la crescita e lo sviluppo del lavoro stesso.
C’è una corrente, una
tecnica di danza in particolare rispetto ad un'altra che ha poi influenzato il
tuo percorso artistico?
Direi di no. Ti spiego. Veniamo tutti da contesti molto
diversi. Io ho iniziato a studiare sin da piccolina danza classica, che
sicuramente mi ha influenzato nella postura, ha plasmato il mio corpo. A
livello fisico indubbiamente le contaminazioni da tante correnti diverse ci
sono, ma non mi sento di dire che appartengo più ad una scuola piuttosto che ad
un'altra.
Per esempio, Marco, non ha studiato danza sin da piccolo ma
viene da una formazione sportiva, e lo stesso Amy si è avvicinata alla danza da
più grande.
Com’è nata la collaborazione con Marco ed Amy? Come vi siete
incontrati?
Io e Marco ci conosciamo dal
2010. Ci siamo incontrati ad un seminario a Bassano, dove abbiamo lavorato in
gruppo insieme a Francesca Foscarini e da li abbiamo iniziato a ideare lo
spettacolo Spic e Span. Amy invece
l’ho conosciuta quest'estate durante un progetto europeo che si chiama Choreoroam
Europe, progetto itinerante in 4 capitali dell’Europa, dove un
collettivo di 8/10 coreografi si incontra per una settimana e fa ricerca
assieme. Ed è proprio all’interno di questo progetto che è nata l’idea poi di
questo lavoro, quindi ho avuto l’esigenza di chiamare Amy perché mi confrontavo
con lei durante quel percorso.
Ho letto che collabori anche con Barokthegreat. Com’è lavorare con loro? Ci sono affinità?
Si sono stata chiamata a lavorare
con loro, come interprete, per l’ultimo spettacolo che hanno prodotto, Indigenous. In realtà, quando divento
interprete per “altri” cerco di dare totalmente la mia presenza in quel lavoro,
chiaramente sono sempre io, però è ben diverso quando invece sei tu l’autore
del tuo stesso lavoro. Sono esperienze molto importanti, in questo caso mi
interessa moltissimo il modo di creare di Barokthegreat, anche se non mi sento
di dire che ci sono dei parallelismi col mio lavoro, perché interagiamo su due
immaginari molto diversi, ma è anche questo un motivo molto interessante per
me, per confrontarmi, su cose nuove che mi portano molta ricchezza.
Quanto ha influito la danza nella tua vita?
Oddio… che domandone!
Sicuramente la danza ha influito
anche nella mia vita quotidiana, è il mio lavoro e ciò, secondo me, dipende
anche dalla tipologia di rapporto che si ha con questo tipo di lavoro, in
primis perché è una cosa che viene da te, è una passione, chiaro che poi
determina e plasma tutti i settori della tua vita e certamente il corpo diventa
per me spesso un veicolo di comunicazione.
Com’è una giornata “tipo” di Giorgia?
E’ una domanda bellissima anche
perché è una cosa che…non esiste!
Sicuramente lavoro, può essere
che io sia qui o da un'altra parte a fare le prove, o può essere che io stia
andando in qualche altro posto per spettacoli o seminari, non so…è tutto molto
schizofrenico, questo di sicuro!
Se vuoi continuare a leggere sul lavoro di Giorgia Nardin vai a All dressed up whit nowhere to go.
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