LE SOTTILI RELAZIONI TRA LO YOGA E IL TEATRO | INCONTRO CON MANOLA MAIANI

Lo Spazio è sempre stato il mio chiodo fisso, muoverlo, danzarlo, abitarlo.La scienza mi ha sempre incuriosito nel mio studio, tutt’oggi appassionato.L’arte, incontrata tardi nel mio percorso di vita, mi ha restituito tutto.L’Arte è per me il continuo e inaspettato risultato di ciò che resta di non detto e che forse non è mai accaduto.

 (Manola Maiani)

Oggi il settimo incontro è con Manola Maiani, ingegnere, urbanista e architetto di formazione, cultrice dello spazio e della possibilità di abitarlo e modificarlo, performer in seguito, affascinata dalla infinite possibilità corporee come architetture sempre innovative (ha lavorato con La Società Raffaello Sanzio, Monica Francia, Claudia Perrone, per citarne alcuni), diplomata nel 2020 presso la scuola di Francesca Proia  I Vasi Comunicanti di Ravenna come Insegnante di yoga.


Ciao Manola! Grazie per dedicarmi del tempo. Partiamo dalla prima domanda, che solitamente è l'ultima:

Cos’è per te lo yoga?

Per me lo Yoga...é farmi i fatti miei.

Intanto mi farebbe piacere sapere come nasce la tua passione per il teatro, come si struttura e sviluppa il tuo percorso nella performance e come poi hai incontrato ad un certo punto la pratica dello yoga. Perché sembra sia una esigenza molto sentita, per chi è nel mondo artistico, portarsi ad un certo punto nel contesto yogico per espandere la conoscenza corporea ma soprattutto mentale.

Da giovane volevo fare ginnastica ritmica ma i miei genitori mi portano ad una scuola aperta da poco di Danza Classica vicino casa, avevo 10 anni circa, mi appassiono e completo gli studi fino ai gradi professionali, molti anni di studio.
Per fortuna la mia insegnante mi fece subito capire che una fisicità come la mia non era idonea al Balletto e la ringrazierò sempre, perchè a parte lo shock iniziale dopo molti anni di studi ormai passati, far capire alle persone la loro natura, per cosa sono nate é importante, anche se può sembrare di togliere il sogno ad una volitiva ragazza, in realtà oggi so bene che i sogni o quello che chiamiamo sogni da adolescenti, sono solo pensieri e convinzioni per la maggior parte non propri ma pilotati da condizionamenti vari.

Inizio gli studi di Danza Contemporanea in concomitanza con il corso di Laurea in Ingegneria Civile che avevo scelto dopo il Diploma in Geometra, con Simona Bucci, allieva del Maestro Alwin Nikolais e dopo la Laurea inizio a lavorare all’estero ( Arizona e Germania principalmente) come Urbanista; é all’estero, dove la Danza Contemporanea é molto più popolare che in Italia, che ho potuto approfondirla come desideravo.

Il Teatro l’ho incontrato invece, dopo l’audizione con Romeo Castellucci per la produzione Inferno della Societas Raffaello Sanzio. Non avevo idea di cosa fosse il Teatro, se non qualcosa che avevo visto a volte e giudicavo vecchio ed obsoleto come ormai reputavo i miei studi di danza classica e davvero non avevo idea di chi fosse Romeo Castellucci.

Mi appare in rete la didascalia che la compagnia aveva scritto per l’audizione: si cerca danzatori, attori, performer che facciano vedere il loro inferno (potendo scegliere una traccia musicale per la presentazione).
In quel periodo ero tornata in Italia e delusa dall’ambiente urbanistico mondiale (dopo le armi, penso la speculazione maggiore sia nel ricostruire dopo le guerre o il crearne per farlo) decido di iscrivermi all’Accademia di Belle Arti, se non potro’ fare delle quinte urbane per tutti, come avevo sognato da ingegnere, costruirò dei quadri miei almeno. Per mantenermi intanto facevo la consulente ambientale per industrie, un know-how acquistato all’estero. Mentre frequento l’Accademia incontro il lavoro gestuale di Emilio Vedova e decido di scrivergli di incontrarlo ma prima voglio approfondire i temi a lui/me cari e l’audizione mi pare un’occasione perfetta per approfondire un inferno che sapevo già di aver vissuto, (mia madre era mancata quando avevo 17 anni) non mi interessa chi é questo signore, lui sarà il pubblico della mia performance. Da poco avevo approfondito le tecniche di improvvisazione e penso ad un training da fare tra pittura testi e corpo per prepararmi a quella azione. Mi ricordo come fosse ora, che mentre aspettavo il treno alla Stazione di Cesena per tornare a Firenze dopo l’audizione, chiamai mia sorella che mi chiese come era andata: “ Ho fatto una delle cose più belle di tutta la mia vita”. Si mise a piangere, la mia convinzione é sempre stata commovente.

 I movimenti erano asciutti ma non pensati, il testo corporeo aveva svolto il tema con sincerità, intensa partecipazione senza sporcare con emotività (molto diversa da sana emozione); distillai movimenti chiari nel loro fluire, chiarendo, a mio parere, che la mente mente e solo il corpo illumina. Lo stato cercato nel training fisico e mentale era riuscito. Piacque anche a Romeo, mi disse che era molto contento senza dirmi di cosa ma a me non interessava, volevo andarmene, ci volle qualche tempo perchè rientrassi nello stato normale del corpo.

Inizio la Tournée Mondiale con Castellucci e incontro gli autori migliori di questo ambiente, vedo molto in ogni piazza, conosco e studio, da Romeo imparo ogni giorno. Gli artisti fuori dall’Italia hanno una formazione completa e non frammentata come nel mio bel paese: la danza separata dal Teatro, separata dalla Performing Art.
In realtà questa visione delle discipline frammentate e chiuse la avevo già osservata: da studentessa di Ingegneria chiesi di fare gli esami architettonici alla Facoltà di Architettura, la Storia dell’Architettura insegnata da Ingegneri non era un granché e affacciandomi alle lezioni di amici aspiranti architetti trovai il Prof. Godoli che spiegava la storia dell’Architettura in modo per me soddisfacente. Mi fu detto che erano mondi separati l’Ingegneria e l’Architettura e che era impossibile.
Impossibile sono poche cose in questo mondo; finii a studiare Architettura a Barcellona, detti tutti gli esami architettonici. In Spagna gli Ingegneri non avevano nel loro programma didattico esami architettonici e arrivando ad ingegneria a Barcellona con il mio che li prevedeva, mi dovettero spedire ad Architettura. Le jet est fait.
Insomma le separazioni all’interno dei saperi istituzionali li avevo già attraversati con la mia prima laurea, iscrivendomi poi all’Accademia avevo notato come i miei amici ingegneri mi vedessero una poverina in cerca di chi sa cosa, gli amici architetti si sentivano invece derubati della loro creatività, come se li volessi superare in estro e in generale mio padre rimase molto sorpreso che da Ingegnere finissi artista in un centro sociale. Quando dici che sei un artista il mondo in Italia ti guarda come se tu fossi un accattone o una persona persa che non ha trovato il suo posto nel mondo. Ma quale posto dicono, me lo sono sempre chiesto.
Mi affaccio al Teatro di Romeo apparentemente vergine a quel mondo ma in realtà so che la scena é fatta: con la tecnica che conosco, nello Spazio che spesso ho progettato/costruito nei miei precedenti studi e ci sono dei Corpi che lo abitano con un movimento che ho approfondito già con la Danza.
Mi appassiona: mi appassiona la tecnica utilizzata esclusivamente a fini estetici, mi appassiona come si disegna lo spazio con contorni più o meno viventi, mi appassiona che chi guarda e dirige sappia riconoscere linee di tensioni tra figure, pesi visivi e intenzioni che pensavo fossero note solo a chi le costruisce, invece quel signore le tesse in percorsi assolutamente visionari ma non assenti. Imparo la regia, molti taccuini scritti, molti appunti presi, molte le possibilità di esperire la tecnica performativa con un pubblico sempre numeroso e presente. Cresco.
Comprendo da danzatrice come il codice coreutico che mi aveva formato sia completamente imploso, almeno in Italia é sicuro, non essendo minimamente riuscito a superare il livello formale che approfondisco diplomandomi in Scultura all’Accademia. Il Teatro fonde per me lo studio della figura classica scultorea, la performance art in galleria e quella dimensione architettonica spaziale che é di ogni teatro come di ogni grande spazio all’aperto o al chiuso. La danza diventa ai miei occhi spesso completamente vuota, di quel fondamento energetico che solo ‘un corpo al lavoro’, con il suo spazio esterno ed interno, può fare/lasciar accadere.

Il Teatro mi insegna che conta più, se non al pari, il dietro quinta, chi sta al buio, rispetto a chi si decide (dittatura non indifferente) di mettere in luce, si chiarisce definitivamente in me l’importanza del buio per chi sta in luce.
Un giorno durante l’Inferno a Barcellona eravamo all’aperto nel meraviglioso Teatro Grec mi chiama un amico dicendomi che purtroppo é venuta a mancare Pina Bausch
( una figura per me centrale anche se non l’ho mai conosciuta di persona). Quel giorno accade qualcosa, ho sensazioni forti mentre guardo le prove, sento qualcosa che non mi piace, sono sicura e decido di lasciare la Compagnia. Non ero mai entrata agli applausi durante tutta la tournè, mi infastidiscono molto, quella sera esco per gli applausi, ho nella mano destra una persona che decido farà parte comunque della mia vita e nella sinistra qualcuno molto più giovane di me che so quasi sicuramente non rivedro’ più lasciando la Compagnia. Romeo aveva fatto scrivere sullo sfondo la montagna di Montjuïc le due date di Pina Bausch, gli applausi mi fanno comunque male dentro ma ci inchiniamo vado in doccia, una doccia profumatissima e avverto della mia decisione prima che andiamo a cena. Non ceno , me ne vado a giro da sola a Barcellona, dove avevo vissuto da studente Erasmus anni prima e ascolto dove mi vuole portare il mio corpo.

Tornata a Firenze prosegue subito la mia attività artistica, con Omaggio allo Spazio e poi con Fiat Lux.

Ti ricordi come è avvenuto il primo approccio con la pratica dello yoga?

Molte colleghe iniziano a praticare Yoga, decido di incontrarlo anche io; posizioni di Hatha Yoga erano da anni nel mio schema didattico di insegnamento della danza contemporanea, perchè le reputo efficaci e salutari, inizio a prendere lezioni di Yoga fuori e nella mia città per circa 5/6 anni e non mi appassionano per niente, anzi, alcune volte le reputo dannose alla mia ricerca performativa. Mi é sempre più chiaro che la tecnica corporea in generale si può imparare ma anche disimparare, sono quindi sempre più attenta alle classi che frequento evitando quelle più performative o piene di atteggiamenti inutilmente scenici o falsamente devozionali, se non sento una corrispondenza nel corpo le elimino subito, il livello spirituale raramente lo sfiorano.
Mi torna alla mente il nome Francesca Proia nominato dai colleghi in compagnia, la nominavano spesso perchè dicevano le assomigliassi, la cerco su Fb le chiedo l’amicizia insegna Yoga ma a Ravenna ha una scuola on line ma io odio on line, prediligo ovviamente il live, inoltre non mi assomiglia per niente, non capisco e lascio perdere. Dopo 5/6 anni di ricerca dello Yoga, non mi abbatto facilmente, un po’ depressa per ciò che trovo decido di comprare una lezione on line di Francesca Proia e da lì mi si apre un mondo. Quella lezioncina era densa di sapere corporeo che conoscevo ma anche un sapere completamente oscuro a me in alcune sue parti. Quella lezione era densa anche di un sapere corporeo a cui evidentemente non avevo mai avuto accesso e sentivo forte la mia difficoltà nell’accedervi. Ripeto quotidianamente quella classe senza sosta per decine di mesi fatti di giorni dove sento la resistenza del mio corpo, qualcosa che non fluisce come al solito, lo sento ci siamo, l’ho trovato. Parlando a telefono con Francesca chiarisce cosa non capisco, mi dice ci vorrà tempo, le racconto esperienze performative personali avute che non riesco ad equilibrare a livello pratico, avverto chiaramente che la sua percezione corporea é molto più ampia della mia e decido di andare a Ravenna per seguirla. Francesca Proia mi ha formato successivamente come Insegnante Yoga non facendosi minimamente intimidire dalla mia assoluto ignoranza sull’argomento, ma anzi sostenendo la mia incrollabile e autentica curiosità per qualcosa che sentivo esisteva, ma sapevo di non aver ancora incontrato.

Francesca Proia permette ad un corpo di toccare la materia yogica come la maggior parte cerca di fare per anni parlandone, senza risultati. Mi reputo molto fortunata ad averla incontrata.

Che cosa ha completato la pratica dello yoga (se lo ha fatto) nella tua ricerca teatrale e corporea?

Lo Yoga, per quanto mi riguarda , non ha completato, ha riunito. Premetto che secondo me, per un performer non c’è niente che non sia personale nella sua arte, niente, proprio niente. Quindi non ha nessuna differenza per me una mia manifestazione fisica in famiglia o la mia performatività in un contesto teatrale/artistico. Per un performer questa unità della pratica/lavoro nelle azioni quotidiane che svolge é davvero un unicum. Lo Yoga per me ha riunito la separazione vissuta alla morte di mia madre da adolescente.Quando accadde, fu allora la mia prima presa di coscienza, violenta, che non sapevo niente di ciò che mi poteva accadere e quindi di ciò che ero, decisi che in tutti i modi, in tutti modi... riuscirò a scoprire, avrò le risposte alle mie mille domande, risoluta e lapidaria. Questo in realtà arriva fino al 2017, dal 1991 quindi, con la mia performance ACCETTA e termina definitivamente con gli strumenti acquisiti nel mio percorso yogico. Dal 1991 la parte mentale razionale é stata utilizzata in modo avido e vorace per scoprire nella scienza e nella filosofia le risposte che cercavo, ma poi in parallelo era solo la mia pratica corporea quotidiana che mi donava reale sollievo ai percorsi mentali, per quanto sembrassero efficaci. Era solo nel corpo che ritrovavo quel rito che avevo abbandonato (smisi totalmente di frequentare la ritualità cattolica) per rivolta o ripicca o qualcosa sì di molto stupido ma che osservavo allora come definitivo. E’ sempre stato un mio difetto l’assolutismo. Ma mi sentivo profondamente tradita, mi allontanai così da una fonte sacra a cui avevo da sempre sentito di appartenere e da allora l’unico riferimento avuto era me e me stessa, nient’altro a cui aggrapparsi né nel dolore, né nella fatica, né nella rabbia. Sola. Me.

Quando finalmente ho incontrato una pratica corporea sacra, é stato subito chiaro in me che non potevo controllare niente in questa nuova disciplina, questa volta non avrei potuto fare come in altre materie, diventare padrona, lo sentii subito, da subito sentii questo pericolo/dono, molto presente. Riunire quindi la parte mentale al corporeo, non per definire il sapere, ma per comprendere definitivamente che proprio tramite quel mentale che ha come presupposto il corporeo (inutile dirlo, non il mentale razionale) si può avere accesso a sentire ciò che si é, ciò che di solito non si vede in questo mondo. Sono ‘stati’ che si possono percorrere in questo mondo, che arrivano ad una messa in discussione totale dell’essere corpo e quindi possono avere diversi effetti, ma il compenso non sperato é di essere sicuri di non essere tu il riferimento di te stesso in questo mondo. Questo discorso é il più leggero che io abbia mai scoperto.
A livello performativo mi ha cambiato?
Lo Yoga ti riunisce, non ti cambia, resti quella che eri, puoi averne più o meno consapevolezza ma é uno scoprirsi non un cambiarsi, non si cambia, ci si scopre, non puoi manipolare niente, non hai nessun potere, solo togliere via via strati che non senti più necessari ed é un percorso infinito la nudità.
In generale riguardo il tema della nudità, direi tema centrale per lo Yoga, la parte più superficiale é quella legata a quell’emozione che ricopre un abito mentale borghese legato ad essa, superato il quale si accede a diversi livelli di nudità fino a quando il nudo diventa un lusso, l’onore più alto, non si pensa neppure più al pudore, un onore che si ha nel donarsi nudi e lo spazio é questo immenso contenitore che ti guida nel processo di spoliazione; alta disciplina.

Poi purtroppo sono convinta, in queste cose le parole non sono abitabili, nel senso che parlare dell’Energia, di Dio, dello Spirito Santo o dello Spazio é raro in quanto le differenze sono chiare a pochi ma in realtà ci sono e sono abissali ma usando le parole direi di fermarci qui.

Usi il metodo abbinato al training teatrale o preferisci scindere le due cose? O l’una influenza l’altra in modalità continuativa?

Usando il corpo, praticandolo quotidianamente si trovano delle cose, nel mondo civile si chiamano, esercizi da fare, perchè scopri essere benefici per il tuo corpo, perchè sei riuscita a seguirlo invece che decidere con la testa dove portarlo. Praticare il corpo vuol dire questo, non incastrarlo in forme o discipline, il corpo ti porta dove lui ha bisogno di andare, se lo sai ascoltare, il che sappiamo essere tutto fuorché scontato. Quando ho conosciuto alcune delle tecniche Yogiche ho ritrovato molte cose/esercizi che pensavo miei, nel senso che avevo scoperto durante la pratica che svolgevo già; questo é normale perchè ciò che si scorda spesso é che è il corpo il presupposto a ciascuna tecnica somatica e posso scoprire o appassionarmi ad una forma e solo dopo sapere che si chiama utkatasana nella tecnica Yoga. E’ il corpo che fornisce la chiave per scoprire cose.

Ora mi chiedi, cosa uso e quando lo uso?
Uso tutto sempre ma non sempre lo nomino, dipende da dove sono, da con chi sono e in che contesto. La parola yoga, come la parola performance, come la parola corpo può inibire in alcuni contesti un approccio fresco e spontaneo della pratica che io prediligo, qualsiasi cosa sto facendo: basta far vivere ad un corpo qualcosa che é giusto per lui, che lui stesso sente da dentro FUNZIONA! Dopo di che non c’è più il bisogno di nominarlo o spiegare partendo da Adamo ed Eva, cosa é e la sua storia fino ad oggi. I corpi apprendono ciò che funziona in loro molto velocemente e quando non accade bisogna chiedersi sempre se quello che vogliamo trasmettere ad un allievo, o ciò che vogliamo arrivare a fare con il corpo, é davvero qualcosa di pronto di presente e solo da vivificare o se forse lo stiamo spingendo solo mentalmente ( la parte del controllo che ho già nominato) ma non é ancora nel suo/tuo ora o oggi. Ci scordiamo spesso che c’è sempre il domani e che il modo migliore é graduale e al bisogno. Tutti insegnamenti di Francesca Proia.

Quello che sto cercando di dire é che il corpo é Uno e quando lo si usa, si prendono le cose che servono che hai a disposizione, certo, le altre non le hai ma sarebbe bello riuscire a prendere tutte quelle che ti servono.
Quando leggo un testo, ascolto il suono che esce dal mio corpo e gli effetti che provoca nello stesso corpo che lo ha emesso, quindi quando uso il corpo é sempre, senza che io lo forzi, tutto collegato ed attivo e quindi non é che una tecnica del Pranayama o del Nada Yoga é qualcosa di scollegato dalla lettura di un testo, e aggiungo, che se tu gli dai un nome e lo svolgi come esercizio staccato dalla tua attività performativa in atto ti perdi la gran parte dell’efficacia di quella pratica. Penso che ci siano tanti testi che a leggerli fanno meglio di un Nadi Shodana, per fare un esempio, ti riallineano in un modo che può arrivare al fastidioso, nel senso del primo approccio ad uno stato negativo del corpo. Ma anche altre letture, altri testi che da un punto di vista sonoro ti inebriano a tal punto che sarebbe difficile pensare di poter avere lo stesso effetto da una tecnica completamente spoglia da così precise suggestioni che ad un corpo guidano e sostengono il percorso, senza mai definirlo ovvio.

Il Nada Yoga é per esempio qualcosa cui si arriva, secondo me, dopo e non prima aver fatto esperienze di questo tipo: si può asciugare da umido un cencio non da secco.

Il presupposto é il corpo, ciò che scopre lui, non le tecniche che gli sono state affiancate nel tempo che ha percorso, quindi fin da giovane ho studiato senza mai trascurare la tecnica ma senza mai farne la padrona (volevo esserlo io...poveretta!) ma come serva di altro che il corpo sa, anche se non può dirlo.
Le tecniche sono un grande apporto alla infinita ed indicibile conoscenza corporea che poi é l’unica cosa che da senso al corpo stesso, non ha nessun bisogno di dimostrarlo agli altri o a se stesso. Nessun bisogno.
Spesso si vuole essere bravi e ci si affida troppo alle tecniche, invece se ti affidi al corpo é un’opportunità di piacere infinito, sei felice, non ti interessa più essere bravo. Il corpo sente ciò che lo fa stare bene, ed é solo da quella strada, sempre secondo me, che poi quando accade si può avere l’opportunità di frequentare gli stati cosiddetti negativi dell’essere. Al bisogno, senza volere, può succedere se percorri una strada del genere, con spontaneità.
A volte la vita, per le esperienze che ti mette davanti, ti fa percorrere stati negativi dell’essere partendo da dolore; se incontri lo Yoga comprendi che é ugualmente possibile accedervi partendo dal piacere e questo conforto ti culla un dentro che si fa sempre più liquido, aereo. In realtà credo il dolore e il piacere identici alla loro radice, si equivalgono perfettamente, poi nelle loro manifestazioni in caduta nella materia si allontanano agli antipodi, ma vanno sempre tenute insieme le polarità nella manifestazione, per osare di sfiorare almeno un equilibrio, seppur instabile.
Quello che ho compreso con lo Yoga é che stati e percorsi da me fruiti in modo maldestro da copro giovane incosciente e audacie quale ero, possono essere non sporadici casi, possono essere non shock allucinati, ma progressivi e anche piacevoli accostamenti a ciò da cui un corpo sente di provenire e a cui tenderà fino al felice termine di ricongiunzione massima con la fonte.
In soldoni per me é particolarmente difficile separare il muscolo sartorio in un ‘retiré’ e vederlo a se stante secondo la tecnica dell’andeor, perchè vorrebbe dire che quel corpo a cui il sartorio appartiene non sente cielo e terra e allora non sta danzando nello spazio, é un corpo morto nonostante la possibile estrema performatività dell’andeor, non si lascia agire da altro. Questa é tecnica. Nella Danza, nella Performance in qualsiasi disciplina corporea la radice é il corpo stesso e se avverti nel corpo quell’uno da cui é nato non hai bisogno di consolazioni tecniche alla tua pratica. Ti soddisfa oltremodo.
E’ un grande onore danzare.
E’ un grande onore respirare.
E’ un grande onore vivere.
Tutto e solo grazie al corpo, la cui radice può essere osservata solo frequentandolo senza volerlo guidare, curiosi di scoprire ma sapendo ascoltare fin dove.
Spesso le tecniche e le discipline pilotate da corpi non felici, si comportano come scatole che vorrebbero includere tutto, stando chiuse. Sono paure. Paure non vissute da corpi, magari sicuri di loro perché sconosciuti a se stessi. Codici/Comportamenti/ Convinzioni come queste non fioriscono purtroppo o per fortuna. E’ molto importante che un corpo si sappia materia aperta, perchè altrimenti si chiude in scatole che danno certezze e convinzioni sì ma poco durature e che a lungo termine provocano disagi non trascurabili.

Ti è mai capitato di portare in scena “lo yoga”? Vuoi una forma, un’intenzione, un mito?

Credo che la performatività attuale della scena contemporanea, quella auspicabile non saprei, sia molto lontana da questo approccio. Condivido con te che sempre più persone che lavorano in scena si avvicinano a questo tipo di discipline e non si capisce perchè ancora sia così di nicchia come si sente dire a festival ritenuti di ricerca. Ma praticando si trovano risposte impensabili: tra il sentire, l’essere e il manifestarsi dell’essere passa tutto quello che viene chiamata alchimia del corpo e credo che tutt’oggi sia per lo più sconosciuta o scomparsa dal sapere più accessibile.

La spettacolarizzazione/ridicolarizzazione del corpo a cui siamo arrivati appare come un asintoto senza limite noto, lo dimostra la fitta solitudine in cui si trovano quegli artisti della scena contemporanea che hanno perseguito questo profondo percorso.
Non dobbiamo scordare che l’arte utilizza più facilmente la spettacolarizzazione, magari ben costruita, di una divisione, rispetto ad una dubbia (presupposto di ogni verità) unione. E’ qui il vizio capitale della seduzione più apparente ma meno efficace in cui un corpo può cadere. Ma con l’Arte, con il Teatro é come con il maiale: non si butta via niente! Quindi, credo bene sottolineare che non é assolutamente detto che ciò che ha un valore artistico alto sia sano per un corpo, anzi tutt’altro; l’arte vive di squilibri e se ne nutre come fossero salvifici, artifex. Che l’Arte é sempre un Bene é una grossa bufala che può essere detta solo da chi la frequenta poco.

L’Arte é una parte importante della vita di ciascuna creatura ma più che altro noi artisti dovremmo ricordare più spesso che l’arte molto spesso ha a che fare con il diviso e non con il riunito, che quel tipo di linguaggio é riconosciuto dalla maggioranza mentre l’altro, seppur sia un onore praticarlo, per la maggior parte, non é minimamente riconosciuto.
Spero di non fare retorica dicendo che ciò che una minoranza scopre senza saperlo dire, di solito non interessa minimamente ad una maggioranza che ha per legge solo ciò che riconosce. Alcuni suoni non hanno niente a che vedere con ciò che é udibile. Questa é la meravigliosa esperienza della vita. La riunione di un corpo é qualcosa di così sottile che lo spettacolare attuale non puo’ comprendere, credo sia un ossimoro il solo pensarlo. Quindi dico che la performatività in scena raramente arriva a questi livelli, perchè ancora non popolari; per ora sono arrivati ad essere popolari i nomi dei Chakra, le varie curiosità che possono attrarre corpi persi in cerca di veloci guide che li facciano sentire vincenti; anche lo Yoga é stato usato come il Buddismo del resto, a scopi utilitari capitalistici.
E anche lavorando in teatro o nell’arte contemporanea, raramente trovi datori di lavoro/galleristi che sono abituati a frequentare questo livello artistico, anche se ci sono ovvio, ma si contano su una o due mani al massimo e la fortuna che ti scelgano... non capita a molti.
Da artista quello che ti viene chiesto è più facilmente un volgarotto movimento seducente dalla mossa audace, tecnica od emotiva che sia poco importa, insomma qualcosa che possa ‘abbagliare’ il pubblico pagante o meglio finanziatore.
Sull’abbaglio mi potrei dilungare moltissimo, é un tema su cui ho riflettuto e sto riflettendo molto.
Come se in questo mondo la luce potesse farsi vedere solo se lontanissima o vicina ma a tratti non continua, forse non é ora o forse é solo davvero presunzione artistica di ego smisurato il poterlo essere.
Sì questo l’ho pensato a volte: ma l’abbaglio è luce? Credo che la risposta da parte della maggioranza sia “Sì certo un abbaglio é pur sempre luce, ma che velocemente si ritrae” e qui si potrebbe parlare della pressione, ma lasciamo stare.

Da performer dico invece, a volte ciò che é luce é anche un enorme buco nero e per riuscire ad uscirci devi sapere bene cosa e quanto (riferendomi al quanto della teoria della relatività). Un performer é un cosmo cosciente, sa, sente (non lo legge!) di avere parti che lo possono inglobare come si ingoia un sorso d’acqua e sparisce alla vista. Un performer sa di essere pericoloso nel suo funzionamento, per ciò che incarna; le potenze, il potere, sono pericoli e se non hai la fortuna di scoprirlo in vita possono distruggerti con una facilità disarmante e senza nessuno o pochi che se ne diano conto. Equilibrare potenze; in questa pratica c’é una rinuncia definitiva a quell’abbaglio di cui vivevi un tempo. Sono luci diverse, o forse é una anche la luce, ma quando sei un principiante con il corpo, é facile farsi prendere dall’abbaglio anche perchè spesso é proprio per quello che ti cercano/pagano.

Certo che l’emotività e l’espressività fanno parte della nostra vita quotidiana ed un performer spesso lavora con codici riconoscibili ai più e quindi vicini a questi temi del sentire/sapere comune e certo che può essere arte anche questo, comunicando qualcosa che non sai al riguardo ma incarni. Questo incarnare in scena non ha spesso a che fare con la riunione di un corpo, quasi sempre ha a che fare con l’evidenziare una parte dell’essere presente; se c’è qualcosa di evidenziato vuol dire che qualcosa é oscurato e quindi non é un corpo unito, ma per il pubblico é ancora importante capire, sapere ciò che vede, sono davvero pochi tutt’oggi gli artisti che sanno fare questo salto allo spettatore.

E’ popolare l’essere divisi, il creare arte in un dolore; quando si crea arte in una riunione di un corpo non appare lo spettacolare ma la Grazia ( e qui ci vorrebbero due pagine bianche di pausa) penso che sia tra le cose più impopolari che un artista possa fare. Ovviamente a quell’artista non interessa l’essere popolare altrimenti non avrebbe intrapreso un percorso del genere, non era nella sua Natura.
Poi mi vengono in mente le parole di Emilio Vedova: “L’arte non sarà mai popolare” su cui ho fatto una performance in video per essere ammessa ad un’audizione di Alessandro Sciarroni, fantastica esperienza anche quella, pur non essendo stata scelta; lo ripeto, quando un corpo é felice di ciò che fa/riesce a sperimentare, poco importano le conferme esterne.
Il riunirsi, lo Yoga, é cosa intima, niente a che vedere con lo spettacolare a cui siamo abituati nelle scene contemporanee, niente a che vedere con lo spettacolare che veste la quarta parete di soffittì pesi.
E il Teatro non é molto diverso dalla situazione relativa alla Performing Art fuori da esso. Non scordiamo che fu Marina Abramovic a definire per prima questo tipo di arte che non aveva più supporti esterni al corpo per prodursi ma si ‘ritraeva’ al corpo stesso. Si inizia qui evidente il processo di assorbimento verso l’interno del corpo e non più verso l’esterno come era sempre stato per esprimersi; é un immenso cambio di paradigma artistico. Che lo voglia/sappia o no, ogni performer é figlio della Signora Abramovic e su cosa significa essere Figlio ci si potrebbe dilungare molto, come su altri temi a questo connessi: essere Madre ed essere Padre.
Cosa vuol dire essere figlia di Marina Abramovic nella mia vita? Cosa vuol dire essere figlia di chi ha lottato in prima linea per la liberazione civile da idee precostituite (le maledette convinzioni!!) e su tabù preistorici? Cosa vuol dire tabù oggi, in una società che ha imposto di non averne a scopi capitalistici?
Quella stella a cinque punte sopra il pube di Marina, oggi merita non simulazioni idolatranti di un fare violento con il corpo, completamente anacronistiche a mio avviso, ma quella cura che chiedeva lei a gran voce, per chi sa ascoltare, ma sempre e comunque senza pretese, nella sua richiesta insistente nonostante la sordità altrui sperimentata a lungo su un corporeo disponibile a mostrare il vero. Cosa vuol dire essere figlia di questo donarsi, oggi?

Gli anni passati dalla famosa performance dove la crudeltà fu resa evidente come prassi comune dall’apertura di un corpo sublime, hanno portato maggior consapevolezza nei corpi di ciascuno, ma la scena artistica/teatrale sembra ancora legata a performatività vintage per nostalgia non si capisce bene di cosa.

Cambierà, con lentezza, ma cambierà, grazie ai performer più evoluti, rimasti sul tattile senza farsi sedurre dal volgare visivo e grazie a corpi particolarmente illuminati impegnati nella direzione artistica di festival e teatri. Sono i direttori artistici le persone più influenti nella scena artistica e a ben vedere i più audaci vengono maggiormente seguiti, questo a dimostrare che il pubblico forse é più avanti di direzioni artistiche legate a vecchi schemi, economici ed artistici. E’ tutto e sempre una questione di corpi, quanto li amo.
Il fare arte e spettacolo è totalmente cambiato negli ultimi trenta anni, a maggior ragione dopo l’esperienza Covid che volente o nolente ha fatto stare milioni di persone a tu per tu con paure, ansie, pensieri che spesso venivano rimossi facilmente con i vari anestetici esistenziali, forniti in gran parte dal sistema integrale dell’intrattenimento/ ristoro ma che tornano ad essere, ora più che mai, in primo piano anche se non cercato. Chi lo sa?
Non lo so.
Ma quando il riunirsi a sé é una costrizione, sarà vissuto come qualcosa da cui scappare, per questo non credo nell’effetto benefico di cui parlano alcuni, riguardo a questa clausura forzata collettiva. Il corpo si riunisce, ed é una costrizione, quando sceglie di farlo, non quando gli é imposto, nella maggior parte dei casi umani, ci sono sempre folgoranti eccezioni. Se non c’é scelta di un corpo a questa azione, non per condurla ma per condursi nel seguirla, sarà molto difficile che la faccia ed é per questo che é meglio non parlare di corpo ma praticarlo; apprezzo particolarmente chi ti fa scoprire il corpo e non lo descrive a parole.

Quanto è importante l’uso e la consapevolezza del respiro? Lo yoga ti ha permesso di scendere più nei meandri di questo atto involontario che con la pratica può invece diventare volontario e controllato? Quanto poi, questo controllo, ti aiuta ad affrontare la scena?

Sono stata guidata nella scoperta del ‘respiro’ nel miglior modo possibile per un corpo vivo e curioso. L’ho scoperto, come molto altro, durante una performance. Ti racconto. Dopo aver lavorato con Romeo, mi guardai intorno e l’unica persona a cui ero interessata era Jean Fabre. La sua scenicità non mi attraeva in particolare, ero interessata invece ad alcuni pezzi singoli, alcune performance/performer secondo il mio sentire avevano tecniche a me sconosciute, quindi da approfondire. Appena é arrivata l’occasione sono andata a scoprire alcuni dei training fisici a cui la sua compagnia si sottopone e lì ho sentito, per la prima volta, il mio respiro.

Il lavoro fisico é molto duro e potente all’interno del lavoro quotidiano e spesso parte proprio dall’analisi/osservazione del respiro. Che respiro ha un animale che corre? Un animale che cammina? Che fugge? Che é ferito e non riesce più a muoversi?
Il training é intenso, guidata da performer super navigati in questo tipo di stati ci entrai facilmente, lavorai molto ma alcune cose non le sapevo fare, stetti a guardare, entrai ancora di più in ciò che non sapevo, il mio corpo aveva l’occasione, fermo e non distratto dal fare, di assorbire. Ero ospite da un amico a Bologna, il suo divano mi accolse come quelle cose che solo gli amici riescono a fare: la notte arrivò febbre altissima, il corpo stava continuando il lavoro iniziato in sala, stava andando in cose arcaiche molto profonde, la parte emotiva animale, lasciai la febbre salire e scendere, caldo freddo, caldissimo freddissimo: la mattina, caffè al bar briosche e in sala, dovevo finire il mio lavoro.

Lavoro sempre e solo per me, sono molto avida in questo!
Ti ho raccontato questo perchè quella notte il mio corpo comprese in modo granitico la potenza che ha il respiro nel condurti, può modificare il corpo nella forma e nel tempo. Non amo controllare niente, tantomeno il respiro; é ovvio che con il Pranayama il soffio viene modellato, perchè le energie sottili diventano sempre più consapevoli dei propri canali, ma amo ascoltarlo, seguirlo, sentire dov’è e cercare di capire cosa vorrebbe da me che spesso dormo rispetto a Lui, sedotta dal mondo esterno a me che non nego, amo tanto quanto. Ogni attimo con Lui, é un esperienza (il partner ideale di un performer), incredibile per un corpo vivo in uno spazio terrestre.

La scena non é per me qualcosa da affrontare, ma abitare, sono sempre in scena, sempre, continuamente. E spesso, ti dirò, é proprio la scena quotidiana che mi offre le sfide maggiori, né quella teatrale, né quella artistica, mi trovo sempre a cambiare la marcia, in questi ambienti, per frenare l’impeto di un mestiere ormai più che decennale. Mentre con lo Yoga so già, sarò principiante per sempre, e lo amo anche per questo.

Da quando pratichi è cambiata la qualità della tua resa in scena? Riscontri dei cambiamenti a livello fisico ed emotivo?

Molte cose sono cambiate. A livello fisico c’è stato un ribaltamento completo, completo ma non credo sia il giusto contesto per parlarne, sarebbero cose private non personali. A livello emotivo molto più equilibrio, a livello spirituale un salto alto per dove ero.

Ho letto il tuo decalogo del performer, a questo proposito che relazione hai con i sensi, con l’aspetto sensoriale sia della pratica yoga sia della costruzione coreografica? C’è un punto in cui ti allontani da loro e ti “ritiri”? Un momento in cui senti che sei lontana da tutto ma allo stesso tempo tutto?

La sperimentazione dei sensi é comunque alla base di quello che é un corpo vivente nella sua manifestazione, che sia ricezione o emissione, o entrambi.
Per storia personale sono stata un’iconoclasta convinta ed ho tolto all’immagine il suo reale valore per molti anni della mia vita, perchè per me il visivo più che l’immagine era didascalico e superficiale, come una mattonella rispetto ad un trave.

La sinestesia maggiore dei sensi l’ho sempre vissuta nel suono, credo che dal decalogo nel mio sito si evinca fortemente, anche se ho sempre cercato di non trascurare mai la forma perchè l’ho sempre reputato un errore imperdonabile arrivando alla percezioni di frequenze più alte trascurare le più basse. Per me un lavoro performativo é fondato dal suo suono/climax e la forma, nella sua seppur più grossolana presenza, deve essere accuratamente scelta, perchè non infici o addirittura annulli il livello sonoro che é estremamente fragile in ogni azione. Quel sottile strato di collegamento ad altro da cui si dipende va protetto/montenuto con cura assoluta.

La guida é il suono, l’ho scritto molto prima di conoscere il Nada Yoga.
Se c’è un momento che sento in scena il mio ritrarsi? Penso di aver già risposto in parte a questa domanda aggiungerò che se dovessi decidere di portare una cosa del genere in scena dovrei innanzitutto avere con esso una frequenza quotidiana, invece essendo una neofita dello Yoga non lo faccio ogni giorno, mi serve più tempo come tempo servirebbe ad ascoltare come presentarlo. Io non decido mai niente, insomma cerco di ascoltare e seguire e per un tipo volitivo quale sono non sempre é spontaneo, per questo so di essere una neofita nello Yoga.

Quel tipo di nudità dell’essere non la frequento quotidianamente come altre cose, la sottrazione all’essere é qualcosa che va assaporata come del buon vino, tempo e ... buona compagnia.

Non ho mai davvero pensato o sognato di portarlo in scena come non ho mai pensato che la mia figura così dominante (leggi fragile) nella scena, potesse essere accostata ad una esperienza così matura senza soffocare quel tipo di suono.
Il visivo, si sa, é molto prepotente nell’esperienza della scena e oggettivamente qualsiasi forma, non solo la mia la vedo/avverto molto lontana da quella manifestazione in sottrazione. Questo non lo riesco ad immaginare. Veramente é qualcosa che avverto come un fragilissimo diminuendo e l’issino non rende l’idea, accostarlo ad un contorno chiuso, mi fa stridere tutto addosso. Una neofita appunto.

Cos’è per te il tempo? E come lo ha ridefinito (se lo ha fatto) la pratica dello yoga e come l’hai poi applicato alla creazione artistica?

Il tempo é un’invenzione umana dovuta all’osservazione della performance galattica. Noi siamo nella Galassia 9 dell’Universo, anche se ormai si parla di Pluriversi da anni, in uno spazio immenso, immane, inimmaginabile ed in questo spazio siamo in un bruscolo chiamato Sistema Solare ed in questo Sistema Solare accadono delle cose che osservandole hanno fatto fare delle invenzioni agli Uomini (colui che osserva). Questa é la parte della Scienza e della Storia della scienza a cui sono da sempre stata interessata. Il tempo, e mi riferisco quindi al tempo cronologico é un’invenzione dell’uomo che ne é quindi il presupposto; non é qualcosa di esterno all’uomo, ma é qualcosa che l’uomo ha o se ne può appropriare. Ora, l’appropriazione del tempo é una delle forme di assorbimento che si può incontrare nella pratica ma più semplicemente nella vita. Dal raptus estetico ( spesso mi scuso per ritardi che faccio dicendo “ho perso il tempo” ma in realtà lo dico per gli altri, io lo so che lo stavo abitando interamente e quindi si contrae incredibilmente, magari per me é stato un attimo ma é passata un’ora) che stacca la temporalità lineare e fa entrare in altri tipi di tempo ( ad avere tempo...ahaha....potremo parlare di ‘aion') e crea come una bolla di sospensione temporale provvisoria, fino al più banale innamoramento che ti fa vivere insieme all’amato un vero e proprio tuffo nel tempo dove si ha l’impressione che tutto il resto si fermi e qui é evidente che il cuore fa da protagonista, non nel senso di sciatto romanticume ma di assoluta apertura verso un altra dimensione, il Sole del Corpo appunto, che io chiamo personale, del Cuore in Comune, fino ad arrivare ad altre tecniche di assorbimento nello Yoga e nella Meditazione.
La cosa fondamentale per me, é che il Tempo in realtà non é qualcosa che noi subiamo, come appare dall’analisi superficiale e distratta del tempo lineare e dei vari segni che lascia/dona agli organismi che proseguono in vita, cioè mentre non muoiono, ma é come se il corpo avesse la possibilità di essere anche il giocoliere del tempo, quando entra in stati che hanno abbracciato totalmente la corporeità, ma sono finiti più profondamente in essa. Non é, secondo me, che ci si stacca da una dimensione materiale ma é proprio grazie ad una percezione liminare di essa che che si può accedere all’essere Tempo. E quando accade questo, mi viene spontaneo scrivere quel tempo, che non direi quindi essere il tempo cronologico, ma una altro tempo scovato nel corpo, con la lettera Maiuscola, non mi interessa se sbagliando. Non sono semplici esperienze come altre, sono direi capisaldi di quello che definiamo come performance contemporanea. Capisco anche che possono sembrare cose strane, ma anche quella storia in cui l’intera umanità sta in piedi sul geoide (GEA) che gira su se stessa e intorno ad un’altra, diciamo non é da meno. 

Ciascuno di noi, dice sì lo so, ma non é vero, non lo sa, non si ferma abbastanza a saperlo/pensarlo/immaginarlo, non é scontato il farlo in una quotidianità che ci mostra un piano orizzontale percorso da un volume assai assortito. Il Tempo ha a che fare con gli spazi immensi e i piccolissimi, con la velocità della luce che crea apparente stasi nella materia, velocità chiamate appunto fotoniche. Questo é lo spettacolare che amo più di tutto ( e penso a Guy Debord al momento) ma non é un invenzione, perchè la scienza contemporanea ha ormai dimostrato da anni la teoria di Einstein del 1915 (ero ventenne quando lo lessi la prima volta) quindi questo spazio curvo dove la materia si accresce. Ecco il Tempo é questo, ha a che fare con lo Spazio Quantico e non o non solo Euclideo (quindi Galileiano, di Maxwell). Il tempo é una dimensione percorribile da un corpo al pari dell’esperienza di spostamento tridimensionale nello Spazio Euclideo, la danza visibile, o almeno ne ha la possibilità che poi ne approfitti dice che dipende da altri nomi come liberi arbitrii: libero prima di arbitrio fa già intuire ‘quanto’ sia costretto di solito.

Frequentare la dimensione di assorbimento del/nel Tempo ti fa vedere il corpo come qualcosa di molto distante da te stesso: la velocità è la derivata dello spazio, ma un corpo é spazio nel tempo, velocità anche molto diverse nello stesso contorno ogni attimo, la sua forma, il suo contorno é l’integrale del corpo nello spazio durante il tempo e il mio discorso continuerebbe nel suo insensato svolgersi fino a scrivere che il tempo é una derivata n del corpo o l’asintoto a cui tende.
Sono concetti astratti, matematici che sicuramente farebbero inorridire ogni scienziato (forse non un ricercatore subatomico) ma io li avverto veri, per me lo sono é la pratica che li mostra evidenti e sono sempre stata convinta che l’evidenza non va dimostrata. Milioni di derivate all’attimo, infiniti integrali nel tempo di un corpo vivente con condizioni al contorno per lo più sconosciute, entrambi secondo me tendono con esponenziali diversi ad asintoti a me sconosciuti.
Ci sono asintoti nel Corpo, tendiamo verso. TUTTI.

Sempre nel tuo sito, ho visto che ogni pagina contiene una piccola frase, parole che definiscono o creano un immaginario anche onirico se vogliamo. Quali autori, libri, ti hanno influenzato in questo percorso yogico e artistico?

Ho iniziato a scrivere quando é morta mia madre avevo 17 anni e non ho quasi mai smesso. Scrivere era l’unica cosa che trovavo per poter dire cosa sentivo, senza far soffrire gli altri che mi amavano; ho sempre odiato far soffrire le persone che mi amano, mi ha sempre ferito molto il farlo.

Scrivendo potevo far finta di fronte agli altri che andasse tutto bene, per non far soffrire e forse anche per non soffrire di più io. Nella scrittura era chiaro, per me, cosa stavo provando; a me bastava questo. Ho iniziato a scrivere senza particolari riferimenti culturali, ma come testo, quadro del mio giorno trascorso (scrivevo particolarmente la sera, ora solo la mattina appena alzata) a volte come appendice.
I quadri dei miei giorni erano lettere su fogli bianchi, le mie lettere quotidiane. L’incorniciare nel senso di racchiudere e non definire, uno stato vissuto con una parola é sempre stato molto più efficace per me che un discorso, anche se non ho mai scritto per altri, era ed é un discorso personale perchè solo io rileggendo quella parola rivedo/ rivivo tantissime cose, tantissimi stati vissuti in passato; é una scrittura per me stessa che volentieri rendo pubblica, ma serve principalmente a me per la mia ricerca.
Siamo animali con possibilità retroattive, spesso la uso anche come modalità lavorativa, se mi viene richiesto qualcosa basta che scriva quella parola che sale nella mente senza pensare, che a comando richiamandola al bisogno posso usarla quante volte voglio per tornare in quello stato/luogo/climax richiesto.

Per me sono evocazioni del mio vivente che diventa vissuto su cui lavoro al momento e racchiudono una sintesi del lavoro fatto su un progetto/studio, assorbendo in quelle lettere al mio orecchio i vari testi corporei, letterari, formali, sonori, scandagliati nello studio.

Per quanto riguarda i riferimenti per lo Yoga penso il più importante sia Giulius Evola e anche se non capii assolutamente niente quando lo lessi la prima volta all’Accademia di Belle Arti mi é stato fondamentale. Il mio corpo sapeva che esisteva quella cosa e forse é per questo che l’ha cercata con così tanta insistenza, non accontentandosi di ciò che trovava.

Alle allieve qualche volta do testi che non capiscono: ho fatto leggere a ragazze di 12 anni Le Lezioni americane di Italo Calvino per un lavoro che dovevamo fare insieme, secondo me, le aiuta oggi a non darsi troppa importanza e domani le aiuterà, sempre secondo me, ad incontrare ciò che il corpo insieme ad una particolare parte della mente ha scelto come buono per loro, come strada per passi futuri. Non so davvero come fanno a sopportarmi, sono davvero molto pazienti.

Leggere senza capire niente é una delle cose più belle che mi é capitato di fare ed ovviamente c’è una resistenza iniziale, tutti tendiamo a voler capire, il principio di dominazione abita ognuno di noi, ma questa visione giocosa dell’arte, dell’essere, credo sia molto importante da acquisire altrimenti si rischia di entrare in dirupi piuttosto pericolosi. Il non prendersi sul serio, il non darsi importanza, l’ho imparato a caro prezzo, e credo che sia salvifico.

Per quanto riguarda il percorso artistico gli artisti per me di riferimento sono stati oltre a Marina Abramovic, Emilio Vedova e Joseph Beuys.


Se il percorso di Manola vi ha incuriositi e vi va di seguirla nelle cose belle che fa e che scrive, come linkato nel testo, vi lascio anche qui il suo sito: www.manolamaiani.it

Commenti

Post più popolari