DICTAT_Perché il teatro deve sempre spiegare? Un viaggio nelle dittature
Come è comodo abbandonarsi agli altri.
Qual è la via?
Un tempo freddo e uggioso (decisamente
freddo rispetto alla media stagionale) mi accoglie a Mantova la mattina del 10
settembre. In questa giornata viene presentato in anteprima DICTAT
(Performative Culture Cooperation for Awareness on Past European
Dictatorships), un progetto ideato e fortemente voluto dalla compagnia
Teatro Magro di Mantova, che grazie al sostegno del Progetto Cultura 2007-2013
dell’Unione Europea è riuscito a concretizzarsi, unendosi nel lavoro con altri
tre paesi apparentemente diversi ma uniti da un filo conduttore molto forte: la
dittatura nei periodi di storia recente e che proprio per questo motivo, sono
paesi che condividono l’esigenza di pianificare azioni comuni, con lo scopo di
rielaborare una propria identità. In diciotto mesi di lavoro progettuale e
artistico Italia, Polonia, Romania e Spagna si sono unite per l’allestimento di
uno spettacolo che ripercorre la storia di queste recenti dittature europee. La
conferenza internazionale tenutasi il 10 settembre nel Palazzo San Sebastiano
di Mantova ha presentato l’intero progetto come esempio di buona pratica; in
questo contesto sono intervenuti diversi ospiti - Mimma Gallina, Alberto
Grilli, Michele Losi, Andrea Pignatti –, a seguire c’è stata “la prova a porte
chiuse” per gli operatori e poi il debutto ufficiale il 13 settembre, sempre a
Mantova, al tempio San Sebastiano.
Il Tempio, con la sua atmosfera
semioscura, con la sua luce fievole e la sua acustica, ha donato alla
messinscena un impatto iniziale molto forte, creando un primo contatto col pubblico certo non indifferente.
(Ph. Federica Mambrini)
Quattro registi diversi - Flavio
Cortellazzi (Teatro Magro), Alejandro Corral (Agifodent), Radek Garncarek (MCK
Belchatow) e Marian Milea (Fundatia Parada) - per quattro paesi diversi con
storie, età, culture differenti dirigono: Alessandro Pezzali e Marina
Visentini, Luis Arenas Barranco e Encarnacion Iañez Alcalá, Katarzyna Paradecka
e Krystian Wieczyński, Gabriel Bucur e Marian Milea, in brevi quadri accostati
tra loro, uniti da una drammaturgia interna che vuole essere portatrice di un
messaggio, il cui denominatore comune è la ricerca della verità attraverso le
dittature che hanno caratterizzato questi quattro paesi in scena. Mussolini,
Franco, Ceaușescu, Jaruzelski, sono i quattro volti dittatoriali che ci sono
raccontati, non solo attraverso il loro operato, ben noto alla storia, ma anche
attraverso delle simbologie che possono non essere percepite e capite da subito
ma ci danno maggiori dettagli sulla loro identità, le loro fobie, i loro “segreti”.
La scelta di non utilizzare una lingua comune (l’inglese) è stata giusta e coerente, proprio per “non essere sopraffatti da un altro che non è presente”, per utilizzare la propria lingua d’origine, per non essere manipolati dal verbo, e capire come una lingua diversa non sia un limite, ma ci permette di capire comunque, soprattutto se ad accompagnare l’intera drammaturgia verbale c’è una drammaturgia altrettanto forte, quella del corpo, delle azioni, delle simbologie che fanno cadere ogni difficoltà d’ascolto vocale per lasciarsi guidare da un percorso, una visione, che ci proietta in situazioni complesse ci trascina con la forza scenica, con l’odore acre della carne, della farina bianca posta al centro della scena - in cui gli attori trovano il loro “spazio bianco” dove unirsi, amarsi e odiarsi, giocare e farsi la guerra -, Dictat, la dittatura, accoglie alcune similitudini con il rapporto amoroso (o almeno la fase iniziale dell’innamoramento), una dittatura che inizialmente conquista, tiene uniti, protetti e poi diventa morbosa, lega, imprigiona, e quando si tenta di scappare, di liberarsi da questa stretta, spesso, lo scontro può essere fatale. Perché l’umanità pensante prova amore e odio per la persona che conduce.
La scelta di non utilizzare una lingua comune (l’inglese) è stata giusta e coerente, proprio per “non essere sopraffatti da un altro che non è presente”, per utilizzare la propria lingua d’origine, per non essere manipolati dal verbo, e capire come una lingua diversa non sia un limite, ma ci permette di capire comunque, soprattutto se ad accompagnare l’intera drammaturgia verbale c’è una drammaturgia altrettanto forte, quella del corpo, delle azioni, delle simbologie che fanno cadere ogni difficoltà d’ascolto vocale per lasciarsi guidare da un percorso, una visione, che ci proietta in situazioni complesse ci trascina con la forza scenica, con l’odore acre della carne, della farina bianca posta al centro della scena - in cui gli attori trovano il loro “spazio bianco” dove unirsi, amarsi e odiarsi, giocare e farsi la guerra -, Dictat, la dittatura, accoglie alcune similitudini con il rapporto amoroso (o almeno la fase iniziale dell’innamoramento), una dittatura che inizialmente conquista, tiene uniti, protetti e poi diventa morbosa, lega, imprigiona, e quando si tenta di scappare, di liberarsi da questa stretta, spesso, lo scontro può essere fatale. Perché l’umanità pensante prova amore e odio per la persona che conduce.
(Ph. Federica Mambrini)
Dictat procede per indizi, non da una
storia precisa e lineare, non vuole rappresentare una trama con personaggi
specifici, il suo obiettivo è lanciare dei messaggi, che ogni singolo
individuo/spettatore potrà decidere di cogliere o meno, prendendosi una
responsabilità: quella della comprensione, dell’ascolto, e sarà libero di farlo
in qualsiasi maniera.
(Ph. Federica Mambrini)
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