Il VIE Festival di Bologna

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Una Bologna grigia e uggiosa, mi accoglie un po’ assonnata.

Quest’anno cambio, lascio la cara e bella Modena per frequentare i teatri della caotica Bologna per il VIE Festival(arrivato alla sua undicesima edizione) in cui ho scelto di vedere tre lavori molto differenti tra di loro.



CONVERSAZIONE di Snejanka Mihaylova si svolge nella suggestiva location del Teatro San Leonardo. Alle ore 11 (della mattina). Una luce soffusa accoglie lo spettatore che è invitato ad ascoltare e a partecipare alla “conversazione” tra Mihaylova e l’attrice Silvia Pasello. Il progetto articolato di Snejanka Mihaylova mira a mettere a confronto una serie di colloqui tutti femminili che mettono in relazione teatro, psicanalisi e religione.

Cosa significa essere la propria voce? “Frantumi” di registrazioni di spettacoli, memorie che ritornano vive, ricordi importanti. Silvia cerca di raccontarsi in un momento molto intimo e senza le “barriere” della recitazione. Per lei essere attori è una condizione costante, dentro e fuori al palco, anche se quando si va in scena è come se si agisse senza emozione, comunque non la propria.

Quesiti, punti di vista personali condivisi con un pubblico osservatore, attento e partecipe che s’interroga, nel silenzio, sulle stesse domande e sensazioni, sul fatto che “se uno pensa è in realtà il suo stesso pensiero”, quesiti sulla fiducia, sulla fede, sulla vita.

La conversazione è alla fine accompagnata da una ‘preghiera’ realizzata con la compositrice svedese Lisa Holmqvist e con la partecipazione del coro Arcanto di Bologna che porta a chiusura e compimento la meditazione sulla ricerca di suono e voce, di memoria e ricordo.



Con BIT mi addentro nella prima fascia del pomeriggio al Teatro Arena del Sole. Bit è lo spettacolo di Maguy Marin, coreografa francese, che si è sempre contraddistinta per i suoi lavori molto innovativi sia per il linguaggio sia per le tematiche affrontate.

In quest’ultimo allestimento, BiT, quasi istintiva e chiara è la lettura della “tragicità” della natura umana, resa dalla teatralità sanguigna, in cui rabbia e grottesco si mescolano a elementi di puro lirismo.

Costantemente in movimento, i danzatori in scena creano uno schema ripetitivo e armonico con delle impennate ora veloci o lente, tenendosi sempre per mano creano una sorta di “danza della vita” ora lenta e attenta, ora giocosa e veloce, ora aggressiva e crudele. Un percorso, dunque, come la vita, in continua mutazione, cicli che si ripetono, si riprendono e si modificano attraverso l’esplorazione del concetto di ritmo.

Proprio l’alternarsi di ritmi veloci e lenti, di attese, inizi, pause, sottolineature, intensità, impennate, toni, tempi caratterizza il presente di un’esperienza sensibile segnata da ogni evento passato e, al contempo, anticipatrice del suono di ogni prossimo accadimento.

Ho avvertito forti le influenze anche artistiche e pittoriche in questo spettacolo come di Matisse e la sua Danza e Delacroix con la Zattera della Medusa. Forse questi collegamenti poco c’entrano in realtà con il percorso e lo sviluppo creativo di Maguy ma chiari sono comunque gli elementi che ci fanno identificare e sentire simili verso gli attori in scena che ricalcano senza sosta una danza costante e ciclica e che mostra la natura a volte animalesca e aggressiva dell’essere umano.



Il pomeriggio continua e si conclude ai Teatri di Vita con I Dream di Abbondanza/Bertoni che vede in scena per la prima volta l’assolo di Michele Abbondanza. E’ una prima occasione che permette a Michele Abbondanza di sperimentare e indagare lo spazio in solitudine, partendo da una riflessione del presente mantenendo sempre vivo il confronto col passato, con la memoria. Ecco che si susseguono coreografie, dalle più “datate” alla più recenti rifatte e reinterpretate con la coscienza di un corpo differente e maturo, di una memoria del gesto che rimane ma che cambia nell’intenzione. Tutta la composizione scenica appare in qualche modo confusa, quasi irreale, senza un vero filo conduttore, come lo sono talvolta i sogni. Immagini del passato proiettate che diventano le immagini di un presente differente ma simile, mai uguale e consapevole. Una sorta di “diario del corpo”, quasi a risvegliare i fantasmi del passato, che hanno alimentato il fuoco senza mai raccontarsi. Portando in evidenza il "limite" di chi si racconta, la nostalgia di una corpo e di un vissuto che non ci sono più ma che rimangono ancora in sospeso. La nebbia alla fine offusca ogni cosa, lascia un dubbio, pone delle domande e forse è necessaria per rimanere in qualche modo sospeso in qualche modo fermo, li in quell’istante. Come quando dal sogno ci si risveglia.




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