Le sottili relazioni tra Yoga e Teatro | Incontro con Benedetta Panisson

Il nostro quarto incontro per le sottili relazioni tra yoga e teatro mi ha portato da Benedetta Panisson, artista visiva e insegnante di yoga.

Benedetta Panisson e’ nata a Venezia nel 1980, attualmente vive a Milano. Laureata in Lettere (Estetica dell'Arte Contemporanea) presso l’Universita’ Ca’ Foscari di Venezia, Master in Arti Performative presso l'Accademia di Brera di Milano, e attualmente impegnata in una ricerca di dottorato in Inghilterra, presso la Durham University. Intorno ai 15 anni si avvicina allo studio di testi sullo yoga e cultura tantrica; nel 2002, a 22 anni, inizia il percorso yogico con Claudio Conte e Lella Calvino (Centro Studi Shakti di Milano). Nel 2010 inizia a insegnare yoga. Nel 2012 si diploma presso la S.F.I.D.Y.Scuola di Formazione all’Insegnamento dello Yoga (Corso quadriennale riconosciuto dalla F.N.E.Y., Federation National des Enseignant de Yoga), seguendo gli insegnamenti di Patrick Tomatis e Claudio Conte. Dal 2012 e’ socia Y.A.N.I., Yoga Associazione Nazionale Insegnanti. Benedetta Panisson e’ autrice dei testi “Yoga e sessualita‘” e “Asana III. Posizioni in equilibrio e inversioni“,  (co-autrice L. Majolino), parte della Collana “Yoga. Teoria e Pratica” del Corriere della Sera, in collaborazione con Y.A.N.I., curata da B. Biscotti e S. Castelli (2017 e 2018). Ha pubblicato un articolo in “Percorsi Yoga”, “Tantra” n. 64, dal titolo “Il desiderio del tantra” (2013). Dal 2014 al 2017 insegna Vinyasa Yoga presso il Centro Vinyasa Krama Milano di G. Andreoli, Milano, seguendo gli insegnamenti lasciati da Srivatsa Ramaswami. Nel 2017 fonda Impossible Yoga, piattaforma web indipendente per raccogliere nozioni sullo yoga fino ai suoi margini, mettendo in relazione i saperi di insegnanti e accademici da tutto il mondo. Alla pratica e all’insegnamento dello yoga affianca il suo lavoro di artista visiva, tra fotografia, video e live performance. Parte della sua ricerca artistica e yogica e’ dedicata all’estetica della sessualita’.

 Still da video, The Miracle Worker (Floor Swimmer), 2006-2012. 
Immagine per gentile concessione dell'artista.

Ciao Benedetta, grazie per dedicarmi del tempo. Il tuo percorso arte e yoga raffigura, per me, la possibilità di abbracciare queste due discipline e governarle senza compromettere l’una la ricerca dell’altra.

 

1. Puoi raccontarci qualcosa di piú? Come hai incontrato l’arte e come è iniziato il tuo percorso in questo ambiente?

 

Inizierei dicendo che amo mettere in ridicolo tanto l’arte quanto lo yoga. Esporsi al ridicolo è mettere tutto in gioco. Mi prendo gioco di entrambe. E’ il mio modo  per conoscere, per sentire, per mettere alla prova i saperi, le dinamiche di produzione, le tecniche. Nella contemporaneità trovo insopportabile qualsivoglia apparato dogmatico, inviolabile, sacrale, tanto nell’arte quanto nello yoga. 

Ho iniziato a fare mostre da ragazzetta, e non ho mai smesso di intendere la pratica artistica come qualcosa di estremamente buffo da fare nella vita, poco distante dai giullari di corte del passato.

La mia prima volta con la fotografia in pellicola è stata quando avevo 5 anni, mio papà mi ha messo in mano per gioco la sua Pentax analogica, non gliel’ho più ridata, non sapevo nemmeno leggere e scrivere. Da lì considero la fotografia la mia illetterata passione. Ho inziato con lui a scattare, mi ha insegnato il gioco del diaframma e del tempo di scatto, dell’attesa dell’immagine latente, eravamo al mare, nelle spiagge del Lido di Venezia. Non ho mai smesso di scattare, e di fotografare il mare.  

La mia prima volta con la performance live avevo 23 anni, avevo in testa un rituale inventato, semplice e ripetitivo, davanti al mare. Presentai la sequenza ad una selezione per il Premio Internazionale della Perfomance alla Centrale di Fies, quell’anno, il 2005, in collaborazione con Marina Abramovic. Mi selezionarono con una semplicissima live perfomance in cui ridevo e piangevo e contemporaneamente carezzavo il pubblico. Conobbi la famiglia di Fies, Virginia Sommadossi, Barbara Boninsegna e Dino Sommadossi. Per quanto fu un onore performare sotto gli occhi di Marina Abramovic, la sorpresa più grande ritengo sia stata lavorare con la famiglia di Fies, a mio parere una delle più belle, oneste, e complesse realtà italiane in cui immergersi nella performing art. Dal canto mio, non sapendo fare pressochè nulla di professionalmente performativo, ad esempio danzare, recitare, cantare, ho sempre inteso la performing art come un continuum della mia propensione a fare scherzi, al mettermi in mostra pur di farli, a creare piccoli disturbi per destare l’attenzione, per spostare gli sguardi.

 

2. Ti ricordi com’è avvenuto il primo incontro, invece, con la disciplina dello yoga e come si è innestata (se fosse) con la ricerca performativa? 

 

Un’amica mi ha fatto provare quando avevo 21 anni, mi ricordo perfettamente la mia prima impressione: poche parole per creare una forma corporea estremamente complessa, e altre volte tante parole che diventavano una postura fisica prossima al niente. Ho iniziato fin da subito a pensare allo yoga come a un qualcosa di molto vicino al teatro di Samuel Beckett, gestualità ridotte al minimo, e iper-espressive. Personalmente il piacere a fine lezione era piuttosto evidente, c’era anche senso di stupore, di alleggerimento. Provo tuttora una certa euforia a fine lezione, sia data che ricevuta.

Ho avuto un’incredibile fortuna geografica, ovvero che la mia casa a Milano, appena trasferita lì, avesse come centro yoga più vicino il luogo in cui ho incontrato i miei maestri, Claudio Conte, Lella Calvino, e Patrick Tomatis. Nello yoga, seguire un lignaggio ti insegna a rispettare un sapere esteso, al quale molte persone hanno dedicato la vita, e contemporaneamente a individuare fessure e margini sui quali fare forza, per provare a vedere cosa succede, se c’è possibilità di ulteriore modificazione, o sviluppo. E c’è sempre. 

Fare muovere e smuovere i corpi al di fuori delle abitudini scontate, mi è sembrato, fin dalle prime lezioni che ho tenuto, piuttosto in linea con quanto si tenta nella pratica artistica. Credo che sia la performance artistica che quella yogica contemporanea abbiano a che fare con una sorta di making special, ovvero di rendere speciale qualcosa di ordinario. Adoro anche una certa storia dei piaceri, e di come questi nel tempo siano stati diversamente governati, enfatizzati, trattenuti, rilasciati, espressi. E questo del piacere credo sia infine la più evidente sovrapposizione, nel mio caso, tra quella che ritengo essere la mia ricerca artistica e nella pratica dello yoga. 

 

3. Il metodo (lo stile di yoga) che hai incontrato è rimasto sempre lo stesso o è cambiato?

 

No, in primis siamo tenuti all’aggiornamento costante, e questo, ci piaccia o meno, modifica gli asana stessi, e anche le tecniche respiratorie. Se si osserva un’immagine di un asana realizzato nel 1890 da un insegnante maschio indiano, e uno scatto in Instagram di una insegnante californiana nel 2020, a parità di postura, vi sono sostanziali differenze. Cambia la nozione di corpo, cambiano i saperi sui corpi, e dunque cambiano anche gli effetti, gli ottenimenti, le tecniche. Siamo tentati di attribuire una certa idea di perfezione e di “spiritualità” alla fotografia indiana, ma siamo mossi spesso da esotismo e folklore, dalla ricerca di continuità, lì dove spesso non c’è, o peggio di universalità, che è omologare invece una proliferazione di diversità nel tempo e nello spazio. Soltanto per distanza culturale sviluppiamo fantasie su di un’epoca paradisiaca dello yoga, che però non vi è mai stata. Non dobbiamo scordare la stretta relazione tra importazione imperialista e colonialista e l’attuale yoga che pratichiamo in occidente, ogni integrità si sgretola sul nascere. 

Uno degli obiettivi di Impossible Yoga, la piattaforma sia web che di lezioni frontali, che ho fondato nel 2013, è proprio quello di raccogliere i saperi accademici intorno agli yoga e contemporaneamente le più attuali forme di insegnamento della pratica, ibridata da altre tecniche di movimento ed espressione corporea. Lasciare i dogmi al passato, e smontarli, e lasciare che chi si avvicina allo yoga abbia modo di comprendere la varietà di forme e insegnamenti, dai testi medievali, alle forme attuali che definiamo asana-based

Personalmente tanto è cambiato, ad esempio ho lasciato andare un certo attaccamento per le linee rette a favore di una pratica più solidale alle curve corporee, ho abolito di anno in anno i detti metaforici, lascio sempre più spazio a un certo sfogo corporeo e al rilascio di calori e tensioni, con piccoli movimenti rapidi, basilari, e ripetuti, bado a che i praticanti non controllino il respiro per controllarlo ma per conoscerlo ed esprimerlo, sospirare. Ecco, il sospiro, che è un rilascio piacevole, ad un certo punto ha preso il sopravvento su ogni priorità di controllo. Scoprire le forze, le relazioni e gli stati di calma tra le forze, anche questo mi piace.

Una cosa è rimasta piuttosto inalterata: non ho mai nominato la parola spiritualità nelle mie lezioni. Sempre più nomino il piacere, e questo ha una storia controversa e dibattuta all’interno dei saperi yogici, e non solo. 

Credo che uno dei miei testi cardine degli ultimi anni nella pratica yoga sia l’Atletitca Affettiva di Antonin Artaud, e tutto il suo portentoso lavoro sull’espressività corporea e respiratoria. E’ lo stesso uomo che ha scritto l’opera radiofonica Per farla finita con il giudizio di Dio, che nella mia posizione critica nei confronti di una certa spiritualità odierna, mi sembra un titolo, ironia della sorte, piuttosto significativo. Per quanto mi riguarda, mi piace ripensare agli yoga, e praticarli nella contemporaneità alla luce di Michel Foucault, dei suoi studi sugli apparati di controllo sui corpi, dell’importanza di inventare forme di piacere, o con il concetto di performatività in Judith Butler.

 

4. Come si è modificato nel corso degli anni il tuo rapporto con l’arte visiva/ performativa e la ricerca yogica?

 

Ho sempre fatto tutto appassionatamente. Questo rende ogni percorso, nel tempo, più semplice, più patetico, più romantico, più ridicolo, probabilmente. Per ogni artista il tempo è il lusso, il lusso di poter fare, di potere ripetere, di perdere tempo, di fare infinitamente meglio, o di sbagliare tutto e ricominciare. Ecco, credo che la pratica yogica mi abbia fatto un brainstorming sulla relazione con il tempo, mi dà la sensazione di potere inventare un tempo che non ho a disposizione, e all’interno di questo tempo parallelo, di potere fare tutto. Sono certa che complice di questo sia la relazione con il ritmo respiratorio, e il concatenamento di questo con l’azione corporea. 

Per quanto di progetto in progetto il mio rapporto con l’arte cambi, mi sembra di essere sempre banalmente uguale a me stessa; per quanto riguarda la mia ricerca yogica, invece, mi sembra di essere di volta in volta sempre più lontana dal mondo degli yoga come vengono generalmente intesi.

 

5. Che cosa ha completato la pratica dello yoga (se l’ha fatto) nella tua ricerca corporea e di racconto attraverso l’arte? 

 

Nel mio caso, credo sia vero il contrario. Una certa modalità di creative thinking, o se vuoi chiamiamola distorisione, esonda dall’arte alle narrazioni sullo yoga, sia sul fronte delle lezioni frontali sia nella narrazione scritta, che ho avuto modo di realizzare ad esempio nei due volumi che ho scritto per la Collana del Corriere della Sera, e grazie alla fiducia datami dai curatori, Barbara Biscotti e Stefano Castelli, e dalla YANI. Ho sentito il bisogno di intendere lo yoga, soprattutto nel volume sulla relazione tra yoga e sessualità,  all’interno di una certa cultura della diversità, con un forte accento gender e queer, in netta critica con il binarismo tra femmineo e maschile lasciatoci da alcune fonti classiche, e con la determinata volontà di ripensare ancora una volta alla nozione di sessualità, e di agire in un pluralismo sul quale credo un certo dinamismo corporeo, e di pensiero, possa fare molto. Che è poi quanto faccio costantemente nell’arte. 

Sono ora impegnata in un dottorato di ricerca in Inghilterra, alla Durham University. Sarà un lungo progetto tra la pratica artistica e la ricerca teorica, incentrato sull’esorbitanza sessuale nei territori insulari, tanto negli umani quanto negli animali, e nelle piante. Per quanto i miei ambiti siano quello della visual culture e dei gender e queer studies, che mi accompagnano da sempre, paradossalmente, ci sarà nelle linee teoriche di base, qualcosa che ogni giorno mi ricorda in qualche modo alcune teorie estetiche legate ai saperi tantrici di epoca medievale.

 

6. Quanto “yoga” c’è nelle tue esperienze artistiche?  Sono due ambiti che rimangono scissi o riescono a permearsi?

 

Questa per me è una domanda scivolosa, posso rispondere con un poco di ironia. In qualche modo mi rendo conto di tenere volutamente lontano qualsivoglia immaginario yogico dalle immagini che produco nell’arte. Immagino sia perchè personalmente ritengo molto noioso il generico immaginario intorno a chi pratica o insegna yoga. Credo che le vesti di insegnante yoga non mi cadano per nulla bene. 

Per quanto possa risultare fuori luogo, detto qui con te, non mi sento particolarmente un’insegnante di yoga, anche se lo insegno da un decennio, e lo studio e pratico da venti, e con totale passione. Non mi spaventa l’ipotesi che qualcuno dica che questi yoga non sono yoga. Avviene anche nella storia della fotografia, anche nell’arte. Ritengo di non avere le carte in regola per essere un insegnante yoga, fumo, bevo alcol, credo in una certa sovrabbondanza erotica (alla faccia di Patanjali), sono queer, sono anche menomata fisicamente e piuttosto storta, sono fermamente convinta che si possa fare serenamente a meno della spiritualità, mi fanno ridere tutta una serie di trovate folkloristiche che piacciono, dalle musichette, i simboli esotici, i tessuti naturali, il cibo bio, le tisane, le universalizzazioni, ma più che altro non capisco tuttora perchè queste vengano tutte insieme, come quando acquisti in rete qualcosa e l’algoritmo ti suggerisce “If you like this, so you like also this, and also that...”. Mi terrorizzo ogni qualvolta sento parlare di purezza, di self improvement, di leggins, di yoga challenge. Ecco perchè, con ogni praticante, cerco di costruire una relazione il più possibile deviante dai dogmi e da alcune prescrizioni yogiche, ma anche da una sua certa deriva consumistica soggetta a cambiamenti repentini e talvolta inconsistenti. Cerco di essere deformata e abile, allo stesso tempo, con chi pratica con me, per realizzare insieme un’osservazione corporea e un ascolto respiratorio leggeri e inclusivi, in cui comprendere ogni elemento delle dinamiche che piano piano si incorportano. Spero con questo di avere spiegato perchè la mia piattaforma si chiama Impossible Yoga: c’è dell’ironia, ovviamente. Il mio obiettivo, comune a tutti gli insegnanti di yoga, è quello che a fine lezione ogni praticante sia un poco più rasserenato, alleggerito, rinforzato, che abbia il sorriso sulle labbra, allora so di avere fatto del mio meglio. 

E’ un mestiere estremamente appagante, dare un poco di piacere agli altri; ora che io stia parlando di arte o yoga, non lo so più...

 

7  Ultima domanda: Cos’è per te lo yoga? Come lo definiresti?

Citerò Samuel Beckett, per finire come abbiamo iniziato: “C’è così poco che si possa tirare fuori, che si tira fuori tutto. (Pausa). Tutto quel che si può”. Anzi no, finiamo con Jean Genet, un maestro che immagino sempre al mio fianco: “Così vivevo in mezzo a un’infinità di buchi a forma di uomini”. 

E lo yoga, ancora una volta, è una forma di dominio su questi buchi circondati da un corpo. Per questo, per quanto mi riguarda, è impossibile. Suona come una buona notizia, infine.




Potete seguire Benedetta per la parte artistica  

www.benedettapanisson.com 


per la parte yoga

www.impossibleyoga.com

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