Le sottili relazioni tra yoga e teatro | Incontro con Paolo Proietti

Eccoci arrivati al quinto incontro con Le sottili relazioni tra yoga e teatro, oggi il nostro ospite è Paolo Proietti, insegnante di yoga, attore e coreografo; è Maestro d'Armi (Coreografo di combattimenti per il Teatro il Cinema e la Televisione, specializzato in tecniche di spada, Bastone lungo e Bastone corto) ed ha lavorato a lungo come danzatore e attore professionista.

2005 - Arte Ecistica - progetto di ricerca sul Territorio - Spettacolo di Yoga -Teatro-Danza  finanziato dalla Regione LazioRegia Paolo Proietti e Luciana Lusso Roveto

Ciao Paolo, grazie per dedicarmi del tempo. Osservando il tuo percorso, mi sembra di capire da che  ti sei avvicinato prima allo yoga del teatro. In che modalità hai scoperto la pratica dello yoga e poi come ti sei imbattuto nel teatro?

Praticavo yoga già da bambino, spontaneamente, ma ho cominciato a studiare con regolarità ufficialmente nel 1973.

La pratica dello yoga era molto diffusa nella Livorno dell’epoca - sono nato a Livorno il 1 febbraio del ’60 – grazie a quelli che chiamavamo “gli scappati di casa” ovvero i post- hippies e i reduci del movimento del’68 che si erano rifugiati in India, in Nepal o, anche se può sembrare strano, in Afghanistan. Gli scappati di casa nell’andirivieni con l’India, insieme a gioielli, tarocchi, statuette devozionali, Sari dai colori sgargianti, si portavano dietro preziosi frammenti della tradizione Hindu mescolati a idee bizzarre e a un confuso sincretismo filosofico e religioso.

Spesso, gratuitamente, solo per il gusto di condividere, ci insegnavano Āsana, Vinyāsa, Mantra e tecniche di meditazione provenienti da varie scuole e lignaggi:

Ci ritrovavamo sul mare o nell’unico parco della città – Villa Fabbricotti – ci sedevamo in cerchio e aspettavamo che uno degli scappati di casa cominciasse a raccontare le storie di Śiva e Pārvatī, a spiegarci le parole del Buddha o a parlarci del Brahman che è l’oceano e noi, mortali, acqua racchiusa nella bottiglia del corpo.

Poi si praticava, una pratica semplice ed essenziale: all’epoca non c’erano tutte le scuole e gli stili che furoreggiano oggi nel mercato della spiritualità, i più esperti tra gli scappati di casa - o i non rari indiani che, accolti come star, capitavano periodicamente – ci mostravano il loto, l’aratro, la locusta o la verticale sulla testa; ci insegnavano a controllare il respiro e a srotolare la “serpentessa”, come chiamavamo Kuṇḍalinī.

Dopo qualche anno cominciammo a fare dei ritiri autogestiti all’Isola di Capraia, soprattutto in Primavera e prima dell’Estate.

Giocavamo a fare i Sadhu: si dormiva nelle grotte, e ci si svegliava prima dell’alba per lavarsi in mare – come fosse il Gange… - si mangiava quello che trovavamo o recuperavamo dai pescatori e passavamo la maggior parte del tempo a praticare, cantare meditare tutti insieme intorno a un fuoco che restava acceso giorno e notte.

Nel 1977-78 molti di noi aderirono alla sinistra giovanile o meglio a quella che veniva definita “Ala Creativa del Movimento”. Cominciai a fare teatro di strada su temi tra virgolette “politici e sociali”: all’inizio erano performance di immobilità in posture spettacolari – tipo rimanere fermo in Scorpione sul tetto di una macchina o prendere la verticale in loto in mezzo alla strada per fermare il traffico – poi cominciai a fare giocoleria con il bastone infuocato – come avevo visto fare ai maestri di arti marziali del Sud dell’India – ed acrobazia sui trampoli.

Nel 1980 dopo aver visto un mio spettacolo di strada, una danzatrice di Livorno-Lorella Reboa-mi chiese di insegnare acrobatica nella sua scuola di danza moderna e dopo un po’ cominciai a fare spettacoli con la sua compagnia.

Visto che mi piaceva l’ambiente mi iscrissi alla Scuola di Mimo e Acrobazia Circense gestita dal Mimo Enrico Grazioli e dalla danzatrice Silvye Larcher. Nell’82 mi trasferì a Roma per lavorare nella compagnia di Terzo Teatro “Abraxas”. Il terzo Teatro nasce dalle idee di Eugenio Barba e di Grotoski la vita della compagnia era strutturata come in un ashram:

Praticamente abitavamo in un parco di Roma, Villa Flora e, quando non eravamo in giro per spettacoli o per partecipare a seminari intensivi con gli attori dell’Odin Theatret, ci sottoponevamo ad un training durissimo, fino a dieci ore al giorno suddivise in sessioni di Yoga, acrobatica, musica, canto, recitazione.

Nell’83 in seguito ad una brutta caduta durante le prove di uno spettacolo –frattura del malleolo, tibia, perone - tornai a Livorno. Dopo quattro mesi di stampelle - durante i quali non interruppi, per fortuna, la pratica dello Yoga – per riacquistare la mobilità mi dedicai al Kalaripayattu e alla Capoeira.

Poi nell’84 partecipai al progetto del Centro Sperimentale di Pontedera diretto d Paolo Pierazzini – “L’Arte della memoria” mi pare si chiamasse -nel corso del quale, grazie ad uno stage con Ryszand Cieslak – approfondii il lavoro di Grotowski, un lavoro che ha le sue radici nel “sistema psicofisico” di Mejerchol’d, ispirato a sua volta alle tecniche psicofisiche orientali.

Nell’85 mi chiamarono per la messa in scena di un’opera lirica all’Arena di Verona –Orfeo ed Euridice di Gluck- in cui una buona parte dello spettacolo era costituita da sequenze di āsana eseguite da mimi-danzatori vestiti solo di un perizoma di cotone indiano.

Lo spettacolo ebbre un grosso successo, e cominciai a lavorare sia come danzatore, sia come maestro d’armi - coreografo di combattimenti –sia come attore in teatro cinema e televisione.

Nell’87 ho cominciato a collaborare con sensei Haruiko Yamanouchi, yogin e attore giapponese, allievo di Swami Vishnudevananda. Insieme ad Haruiko ho fatto performance – in teatro e televisione - basate sulle tecniche dello Yoga e del Qi Gong fino al 1997.

Nel ‘90-‘91 ho lavorato in Oriente; nel ’92 sono stato chiamato dal Teatro dell’Opera di Roma per dirigere un gruppo sperimentale di Mimi-acrobati il cui addestramento era basato sulla pratica dello yoga e delle tecniche psicofisiche cino-giapponesi (Wu Shu, Taijiquan, Ai Ki Do).

Nel’93 ho lavorato con la compagnia di danza newyorkese “Bill T.Jones & Art Zane Company.

Dal ‘94 ho lavorato come mimo-danzatore e maestro d‘Armi al teatro alla Scala di Milano.

Tra il’96 e il’98 ho partecipato come performer ed esperto di Haṭhayoga al progetto di “Teatro Sacro” “Misteries of Eleusis” insieme a maestri di discipline tradizionali indiani, cinesi, giapponesi e tibetani, progetto messo in scena al BAM di New York nell’ottobre del 1998.

Tra il1999 e il 2007 ho diretto insieme alla danzatrice Luciana Lusso Roveto, il progetto Finanziato dalla Regione Lazio “Arte Ecistica” basato sulla collaborazione di maestri orientali e africani, professionisti della danza e del teatro italiani e braccianti agricoli maremmani.

Tra il 2001 e il 2011 ho curato il training fisico e le coreografie degli spettacoli della compagnia integrata –formata per un terzo da attori e danzatori diversamente abili –“Superdiverso”,finanziata dal Comune di Roma.

La mia esperienza teatrale termina nel 2011 quando il mio istruttore di Advaita, Premadharma Bodhananda, mi invita a occuparmi solo di ricerca e di insegnamento dello Yoga.

Come si è modificato nel corso degli anni il tuo rapporto con lo yoga? Se si, in che cosa?

Il teatro, la danza e – anche se ho fatto solo delle dimostrazioni e mai gare agonistiche – le Arti Marziali mi hanno insegnato lo “stato di necessità”.

Un danzatore ed un attore sul palco sono “sotto esame”, sono a rischio e se dai loro gesti e dalle loro parole non emerge la giusta energia, se non entrano nello stato di Flow, inteso come “Esperienza Ottimale” vengono fischiati. Per un professionista non entrare nello stato di Flow significa perdere il lavoro.

Nelle Arti Marziali e negli Sport da Combattimento se non hai la giusta energia oltre ai fischi prendi una caterva di botte.

Questo stato di necessità dona ai gesti, alle sequenze ed ai suoni, un particolare “rasa”, un sapore inconfondibile che rende, o dovrebbe rendere, il movimento armonioso, elegante e naturale: in altre parole “bello in sé”.

Nello Yoga attuale non c’è quasi mai lo stato di necessità.

La new age, ormai radicatissima nell’ambito yogico rende difficile se non impossibile “giudicare” i movimenti, la recitazione di un mantra o il canto di un Bhajan.

Le asprezze di certi miei maestri e insegnanti, come Lobsang Jinpa, Premadharma, o Balasundaram Soman, sarebbero impossibili da proporre in una scuola di yoga odierna: si direbbe che l’istruttore “abbassa l’autostima dell’allievo”.

Ci sono addirittura correnti di pensiero per le quali un bravo praticante o un bravo insegnante “deve” nascondere la propria abilità per non “turbare” gli astanti.

Alla fine si perde “la necessità di una postura o di una sequenza, diventano forme vuote, prive di energia o, se praticate in maniera ripetuta e identica per anni, assumono un sapore meccanico. Se il fine dello Yoga è la realizzazione dello Stato Naturale (Sahaja), secondo me a volte sono più yogici alcuni teatranti, danzatori e marzialisti della maggior parte degli yogin.

Hai rilevato lo stesso cambiamento anche sull’atto performativo sopra il palco?

Domanda alla quale non so rispondere.

Il fatto è che la danza e il teatro novecenteschi sono completamente pervasi di Yoga.

Negli anni ’80 ho lavorato con Yves Lebreton (Mime Corporel) e il suo allievo Gilles Coullet (Le Corps Sauvage) della scuola di Decroux.

Decroux appartiene al novero dei padri delle tecniche psicofisiche occidentali insieme a Delsarte, Dalcroxe, Hébert.

La relazione con lo Yoga e la filosofia orientale nei metodi di questi maestri è evidentissima, basti pensare alla divisione triplice sia del movimento, sia dell’anatomia sia della totalità dell’essere umano presente nel lavoro di tutti loro: il loro fine è il raggiungimento dello stato naturale dell’essere umano attraverso l’integrazione di tre principi: 

-       Spirito/Mente raziocinante, che si esprime attraverso il linguaggio e il pensiero, che noi potremmo definire Brahma;

-       Vita/Emotività, che si esprime attraverso i suoni inarticolati (gemiti, sospiri ecc.) che noi potremmo definire Viṣṇu

-       Anima, che si esprime attraverso il gesto, che noi potremmo definire Śiva.

I capostipiti della danza moderna, Martha Graham, Ruth St Denis, Ted Shaw, erano tutti yogin.

Jean Cebron, maestro di Pina Bausch, era un danzatore classico, ex Maitre dell’Opera di Roma, che cambiò completamente il suo metodo dopo un viaggio in oriente, inserendo nella preparazione dei danzatori il lavoro sull’onda, le spirali, sulla logica naturale del movimento e sulla respirazione provenienti dallo yoga, dalla danza e dalle arti marziali orientali.

Persino la danza classica ha legami con lo yoga e l’arte indiana: le posizioni di base delle braccia fanno riferimento all’apertura del cakra dei genitali (prima posizione), del cakra del cuore (seconda posizione) e del cakra dai mille petali (terza posizione).

Pensa che uno dei balletti più famosi, la “Bayadere” di Marius Petipa è ispirato alle storie delle Devadasi, le danzatrici sacre custodi della danza e dello yoga alchemico vittime proprio in quegli anni – la prima della Bayadere è del 1877 – di una serie inaudita di angherie da parte degli inglesi che arrivarono a distruggere i loro “templi” e a costringerle a dichiararsi “prostitute” (nel1866 gli inglesi promulgarono una legge che rendeva la prostituzione “obbligatoria”).

In definitiva lo yoga come preparazione psicofisica di attori e danzatori è presente nella danza e nel teatro almeno dagli inizi del ‘900, ma andando indietro, addirittura alla Roma imperiale, si possono trovare tecniche affini allo Yoga nelle esibizioni dei “Chironomi”, i mimi orientali che si esibivano al Colosseo in spettacoli composti da posizioni statiche e gesti delle mani (mudrā?).

Ti è mai capitato di portare in scena “lo yoga”? Ossia, pensando anche agli stessi asana o alle sequenze fluide, hanno in qualche modo influenzato le ricerche di forme più attinenti ad altre e che ti aiutarono a comporre una coreografia?

Se parliamo di posture, di sequenze, di tecniche vocali (ad esempio la tecnica degli overtones che mi hanno insegnato i tibetani) mi è capitato sempre (fino al 2011); se invece ti riferisci a spettacoli sul tema dello yoga o a performance in cui si tentava di mettere nello stato di flow – attraverso tecniche yogiche –  sia gli attori danzatori, sia il pubblico ti posso parlare di Misteries of Eleusis (1996 Scarsuola di San Francesco a Montegabbione, in Umbria 1998 al BAM di New York durante la rassegna “The Next Wave”), dello spettacolo multimediale “Re del Lago”(1990 a Bracciano), della Performance KA del 1996 (organizzata dalla Ford), dello spettacolo “L’ultimo Volo di Hans Claudius” (1988 Teatro Edoardo de Filippo, Roma),della Performance “Virabhadra e la spada Asi” (Lerici 2012, Festival di “Consapevolmente”), dello spettacolo/concerto “Perigitis” 1992 (replicato a Roma e Atene) ecc. ecc. In tutti i e due i casi essendo un tantrico, penso che il vero āsana, la vera mudrā, il vero mantra debbano insorgere naturalmente: deve essere l’energia a far muovere il corpo, non la volontà.

Il miracolo avviene quando in una serie di movimenti spontanei riconosci –e gli astanti riconoscono…- una sequenza tradizionale, la danza di Śiva.

Prima di partire da una posizione per creare una coreografia, bisogna toglierle la ruggine che la consuetudine le ha gettato addosso.

Bisogna riscoprirne la “necessità”, ovvero le motivazioni pratiche ed energetiche da cui è nata, altrimenti è una forma vuota, ed una coreografia nata da una forma vuota potrà essere solo una fredda imitazione della natura, mentre la coreografia “deve” essere natura.

D’altro canto i tentativi, apprezzabili, di coloro che sinceramente, cercano di improvvisare la maniera di entrare ed uscire da una posizione facendo acting…che so

…sugli elementi (Terra, Acqua ecc…) o su emozioni e ricordi soggettivi, pur non essendo vuoti ed arrivando ad essere espressione di qualcosa, dal punto di vista dell’arte sacra o oggettiva rischiano di essere, secondo me, velleitari.

Lo Yoga è evocazione delle energie pure della creazione e, oltre a conoscere le origini mitiche e simboliche di una postura o di una sequenza è necessario aver compreso o tentato di comprendere, l’essenza dell’arte indiana.

Nel caso di una sequenza ad esempio, bisogna sapere che è costruita come un raga: Vinyāsa nell’Arte indiana è una particolare maniera di disporre i Nyāsa.

Banalizzando per Nyāsa si può intendere una serie di note e/o pause che danno ad ogni Raga un sapore, una connotazione particolare, per cui vinyāsa non è una semplice sequenza, ma la costruzione - una delle costruzioni possibili – di una particolare figura ritmica e melodica.

Nel caso dello Yoga ogni postura, a detta di Krishnamacharya, è un vinyāsa e i vari passi per raggiungere la postura ed uscirne sono da considerarsi come le note di una melodia o le sillabe di un verso poetico.

Prendiamo la postura, o meglio la sequenza, della “Candela”, “Sarvangāsana”: sempre secondo Krishnamacharya è “composta da 12 Vinyāsa l’ottavo dei quali è āsana sthiti

Questo significa che dopo sette posture o movimenti di passaggio il movimento viene sospeso in “candela”, questa sospensione, corrisponde ad una ritenzione-spontanea – del respiro e un contemporaneo bandha. In pratica, sempre semplificando molto, considerando ogni postura o movimento come una “misura” (matra) musicale avremmo 7 tempi o misure in movimento (sette note), una pausa “in sospensione” e tre misure in movimento per arrivare alla fine della sequenza.

Se fosse un pezzo di una coreografia di danza potremmo dare al ballerino questa indicazione: un-due –tre –quattro…un-due-tre… SOSPENDI…un-due-tre”.

Il tempo della sequenza – sempre riferendosi all’arte indiana, può essere rapido (Drut), medio (Madhya) o lento (Vilambit) ma la velocità dipende dalle caratteristiche e dalla volontà del praticante, nel senso che per ciascuno di noi ci sarà una maniera diversa di intendere ed eseguire il tempo rapido, medio o veloce.

Difficile?

In altre parole ogni āsana deve essere una melodia, un canto, che io posso intonare come voglio, alla velocità che voglio, ma rispettando la costruzione metrica.

L’essenza della postura è nella sua costruzione ritmica esattamente come l’essenza di un mantra è nella sua metrica: l’energia che chiamiamo Śiva si esprime in cinque sillabe così come l’energia di Viṣṇu si esprime in sei sillabe.

Il ritmo, la velocità e la costruzione “melodica” corrispondono al mito e/o alle configurazioni astrali che sottendono la postura o la sequenza: le tre posture di Virabhadrāsana (il guerriero 1, 2, 3) raccontano ad esempio un episodio successivo alla morte della prima moglie di Śiva,Satī, quando il dolore e la rabbia del dio dai tre occhi danno forma ad un guerriero invincibile dalla testa leonina, che entra nella casa del suocero di Śiva, prende a pugni e calci chiunque gli arrivi a tiro.

Nel praticare le tre posture insieme per trasformarle in danza bisognerebbe conoscere il mito, riempirsi del dolore e della rabbia di Śiva, e trovare il giusto ritmo per esprimerli (nella danza il guerriero si muove se non sbaglio in tempi composti come il 5 – 3+2 – o il 7 – 3+4 – o comunque impari.

Quello che volevo dire è che è difficile, per la mia esperienza, improvvisare una danza su una postura yoga o una sequenza senza conoscere i fondamentali dell’arte e della filosofia indiana, sarebbe come leggere la Divina Commedia senza sapere cosa è un endecasillabo e ignorando l’impianto filosofico dei “Fedeli d’Amori”.

Poi ovviamene ognuno può fare ciò che vuole e può ottenere risultati interessanti.

Ricordo ad esempio una coreografia che ho montato nel 1991 a Caracalla per il Nabucco dell’Opera di Roma: il regista mi aveva chiesto di creare una danza “guerriera” ispirata al simbolo Scorpione sul brano “È l’Assi – i-ria una regi-i-na...”ed io feci entrare dodici danzatori da punti diversi del palcoscenico chiedendo loro di improvvisare sulle posture dello scorpione e del ponte (cakrāsana) dirigendosi al centro del palcoscenico dove raccoglievano scudi e spade con cui costruirono, alla fine del brano, un gigantesco scorpione.

L’effetto era bello – alla prima ci furono cinque minuti di applausi a scena aperta – ma si trattava appunto di un “effetto”, un giochino visivo fine a se stesso.

Usavi dei pranayama particolari in preparazione agli spettacoli? 

Questo è un argomento interessante.

Gli attori già usano un sistema abbastanza complesso di respirazione, ed hanno un buon controllo dei muscoli respiratori.

Molti prima degli spettacoli praticano meditazione o training autogeno.

Io preferivo fare esercizi di “animal walking” e “grounding” – anche questi presi dalla tradizione indiana – per risvegliare quel genere di energia che mi sarebbe servita sul palcoscenico.

Il problema delle tecniche di respirazione comunemente insegnate nelle scuole di yoga attuali è che sono finalizzate all’alterazione dell’equilibrio biochimico.

L’espirazione forzata chiamata kapālabhātī, ad esempio è finalizzata alla diminuizione della percentuale di COnel sangue inducendo nel praticante lo stato detto “ipocapnia”. I sintomi della ipocapnia indotta da kapālabhātī sono:

 

1.    Riduzione della frequenza del respiro;

2.    Accelerazione della frequenza cardiaca;

3.    Leggera alterazione cerebrale con vaso costrizione e produzione di effetti visivi anomali.

4.    Insorgere di uno stato di eccitazione mentale o di leggera ansietà.

Un altro esercizio respiratorio molto praticato nello yoga è bhastrika che consiste in veloci inspirazioni ed espirazioni forzate. In questo secondo caso, alla diminuizione della concentrazione di COsi accompagna la diminuizione della concentrazione di ossigeno nel sangue. Visto che nel corpo umano la necessità di assumere ossigeno viene indotta dall’aumento della percentuale di anidride carbonica, essendoci poca COnel sangue il praticante non sentirà la necessità di inspirare più profondamente e sperimenterà i sintoni di una leggera “ipossia”, ovvero di una diminuzione della percentuale di ossigeno nel sangue.

I sintomi dell’ipossia sono:

1.    Progressivo abbassamento della frequenza dei battiti cardiaci (dopo un iniziale aumento);

2.    La diminuizione del metabolismo, con una sensazione di tranquillità e sonnolenza:

3.    La sensazione di leggera ebrezza (successiva alla sonnolenza) con distorsioni percettive;

4.    Restringimento del campo visivo. 

L’apnea forzata, assai utilizzata anche in molti esercizi respiratori di base – esempio: si inspira in 4 tempi, si trattiene l’aria per 64 tempi e si espira per 16 tempi – provoca infine ipercapnia, ovvero un aumento della percentuale di anidride carbonica, con l’insorgere di un leggero stato di letargia, riconoscibile da questi sintomi:

1.    Sonnolenza;

2.    Scarsa reattività agli stimoli esterni;

3.    Diminuizione dell’attività mentale. 

Si tratta di tecniche che possono portare a stati non adeguati alle prestazioni che devi avere sul palco.

Sul palcoscenico devi riuscire a “vederti visto”, nel senso che devi avere un feedback immediato di ogni tuo gesto, espressione, parola:

Davanti hai il pubblico e se il tuo 70% di energia vitale deve essere utilizzato per muoverti, danzare o recitare il 30% lo devi conservare per trasmettere al pubblico quel qualcosa di inspiegabile che rende per lo meno interessante il tuo dire e il tuo fare.

È possibile che l’apnea forzata o bhastrika portino ad un eccessivo rilassamento, così come kapālabhāti potrebbe indurre uno stato di ansia.

Ansia ed eccessivo rilassamento sono stati sconsigliabili per un teatrante.

Secondo te la resa che avevi sul palcoscenico era differente in base anche all’uso che facevi dello yoga?

Non sono stato né un grandissimo attore né un grandissimo danzatore, ma di certo per 30 anni sono stato un professionista. Ogni tanto ridanno in televisione alcune delle fiction in cui recitavo il ruolo del cattivo (come “Incantesimo” o il “Commissario Manara”) e, a prescindere dallo stile di recitazione che può piacere o meno, si nota ancora quella che in teatro si chiama “presenza”. La presenza di un attore o di un danzatore non è abilità o bellezza, ma è la capacità di entrare nel Flow.

Quelli che hanno avuto la fortuna di avere istruttori saggi e preparati di yoga e meditazione fanno l’esperienza del Flow e hanno gli strumenti per ricrearla.

Ultima domanda: Cos’è per te lo yoga?

Pratico yoga da 48 anni, direi che è la mia vita.

Yoga è questo, danzare la Vita, esprimere il più possibile i propri talenti, riempire il più possibile le capacità che la natura ti ha dato con l’acquisizione delle abilità. Già, lo yoga è “abilità in azione”.

Penso che la meta dello yoga possa essere questa: arrivare alla fine del viaggio con la consapevolezza di aver dato tutto ciò che la natura ci ha donato per il bene di se e di tutti gli esseri senzienti. 

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